«Durante il compleanno di mia suocera, a casa nostra, mio suocero mi fissò e sputò: “Stai zitta, qui non conti niente!”. Ma la replica di mio marito mi ha fatto scoppiare in lacrime.»

Era tutto pronto per una magnifica riunione di famiglia in onore del compleanno di mia suocera. Invece, quella giornata scoperchiò fratture che fingevo di non vedere, trasformando la festa in un campo di battaglia e facendomi dubitare di appartenere alla casa che avevo contribuito a creare.

Dopo la magistrale, tra notti passate su progetti di architettura e cene a base di ramen, conobbi Daniele. Dormivo poco e avevo ancor meno tempo per frequentare qualcuno. Lui comparve in ufficio come nuovo addetto marketing, con un completo due taglie più grande.

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Entrò con la cravatta storta e i calzini spaiati che spuntavano dall’orlo dei pantaloni, proprio mentre controllavo le planimetrie. «Giornata di bucato», mormorò vedendomi sorridere. «Il vestito è di mio padre». «Si nota», gli risposi trattenendo una risata. Arrossì fino alle orecchie. Da lì, non ci siamo più separati.

Quella goffaggine gentile, unita a una calma sicurezza, divenne la base della nostra vita. Ci sposammo e, quattro anni dopo, arrivò Sofia. Lei cambiò il ritmo di tutto: i sogni, le conversazioni a tarda notte, persino il modo di riempire le giornate.

Avevamo un’idea fissa: vivere vicino al mare. Non volevamo circoli esclusivi o yacht; ci bastava una casetta sulla spiaggia, l’odore di salsedine al mattino, il caffè sul portico, Sofia che correva dietro ai granchi e disegnava sirene sulla sabbia.

La famiglia di Daniele non la pensava allo stesso modo. Sua madre, Margherita: «È troppo lontano da tutti». Suo padre, Edoardo: «Vi isolerete e ve ne pentirete». Ogni parente, poi, con domande su feste, compleanni, ricorrenze.

Andammo avanti comunque. Turni extra, niente vacanze, ogni euro messo da parte. Dopo quasi sette anni, trovammo una casetta bianca, la pittura scrostata e il portico che cigolava, a tre isolati dall’acqua. Era imperfetta, ma nostra.

La rimettemmo in sesto pezzo per pezzo: carteggiammo i pavimenti, ridipingemmo le persiane, piantammo un’aiuola di erbe che Sofia scelse con cura. La prima notte sentimmo le onde entrare dalle finestre: ci sembrò una benedizione.

Poi arrivarono gli ospiti. All’inizio fu tenero: i genitori di Daniele venivano nel weekend. Sua sorella Alice compariva con i gemelli; io preparavo lenzuola fresche, snack da spiaggia, piccoli falò serali. Le visite, però, si allungarono. Le “sorprese” divennero aspettative. Una mattina trovai Edoardo alla finestra con il caffè in mano.

«Vista splendida», dissi ridendo. «Dovreste venire più spesso». Lui strizzò l’occhio. «Arriveremo». Dalla cucina, Margherita: «Gliel’ho detto: potremmo trasferirci. C’è posto». Sollevai lo sguardo. «La stanza di Sofia è minuscola…» provai a dire. «Sciocchezze», tagliò corto. «La famiglia viene prima. Ci conosciamo da sempre».

La volta dopo non avvisarono neppure. Si presentarono con valigie, canne da pesca e borsoni di spesa. Daniele mi bloccò in garage. «Lo so», sospirò. «Parlo io con loro. Non oggi, però. È il compleanno dei gemelli». «Ma non sapevamo che venissero», sibilai. «Sono piombati qui». «A breve risolvo», promise.

Quel “a breve” non arrivò. Cominciarono i messaggi: «Che portiamo per il brunch di Pasqua?» — sottinteso: da voi. Capodanno, all’improvviso, diventò “tradizione in riva al mare”. A Natale, Alice voleva pigiami coordinati per tutti. Margherita iniziò a chiamare “sua” la stanza degli ospiti.

Mi sentivo la gerente di una pensione sul litorale che non avevo mai aperto. Poi la telefonata di Edoardo: «Restiamo due settimane». «Spero non sia un problema». Daniele tentò: «Sofia ha scuola, la stanza non è pronta». Lui rise: «Ci adatteremo. Tua madre dorme meglio qui».

Quando Daniele me lo riferì, crollai. «Non chiedono: decidono», dissi. «Non siamo il loro resort». «Hai ragione», sospirò. «Scusami. Rimedio». Non lo fece. I confini si spostavano come la battigia: ogni ondata li ridisegnava.

Non avevo una mia famiglia che facesse massa critica: i miei genitori erano morti in un incidente quando ero all’università, niente fratelli, solo cugini lontani. All’inizio la confusione dei parenti di Daniele riempiva quel vuoto. Ora mi toglieva l’aria.

Arrivò il compleanno di Margherita. «Qualcosa di semplice, solo i più stretti», disse. “Solo i più stretti” diventò undici persone: Edoardo, Alice con i gemelli, il nuovo compagno Martino e due zie che non avevo mai visto. Martino arrivò col suo gin e domandò «un tonico artigianale».

Per due giorni preparai tutto. Sofia dipinse un cartello enorme: “Buon Compleanno, Nonna!”. Appesi ghirlande color schiuma di mare e palloncini dorati. Mi promisi che ne sarebbe valsa la pena.

La domenica la casa brulicava di voci. Piatti pieni, risate, briciole di torta ovunque. Io, seduta a tavola con una forchettata d’insalata, ascoltavo. Edoardo si alzò con il calice in mano. «Mia cara, grazie per le due settimane di vacanza in questa meravigliosa casa al mare!»

Calo di silenzio. Qualche battito di mani incerto. Margherita lo bonariamente redarguì, come a dire “che spiritoso”. Io rimasi interdetta. «Da quando sarebbe una vacanza?» chiesi. Edoardo mi guardò come fossi ingenua. «Qui. In questa casa». «Ma è la nostra casa», dissi piano. Lui sbuffò: «Non capisci? Qui è casa nostra. E qui restiamo». Le posate si fermarono a mezz’aria.

«Non potete fermarvi due settimane», replicai. Allora esplose: il viso contratto, la voce tagliente. «Stai zitta! Qui non sei nessuno! Si fa come dico io!» La forchetta di Sofia cadde a terra. Le mie mani tremarono. Avevo parole in gola, ma non uscì nulla.

Parlò Daniele. Piano, ma netto: «Papà, non parlerai mai più così a mia moglie. Né qui, né da nessun’altra parte». L’aria diventò densa.

«Mi vergogno», continuò. «Questa è casa sua. Nessuno vi ha invitati a trasformarla in un albergo». Nessuno rispose. Margherita fissava le ginocchia, Alice mordicchiava il tovagliolo, una delle zie si raddrizzò sulla sedia senza guardare nessuno. Daniele si voltò verso sua madre: «Quando è diventato normale?» Lei, a bassa voce: «Avevo solo detto che era tutto sistemato…».

Lui annuì. «Dovevo fermarvi prima. Ho scambiato la nostra generosità per un obbligo e voi ne avete approfittato. Dopo cena, tutti a casa. Niente ospiti per sei mesi. Forse di più». Inspirai a fondo. Il singhiozzo che mi sfuggì non era tristezza: era sollievo puro.

Si sedette accanto a me e mi prese la mano sotto il tavolo. Il pollice che mi accarezzava il palmo, un gesto semplice. «Qui conti tu», sussurrò. «Perdonami».

Il resto della cena fu un brusio di posate e il rumore lontano delle onde. I gemelli chiesero di finire la torta “prima di andare via”. Una zia borbottò di «rispetto per gli anziani», l’altra sibilò sui «legami di sangue». Nessuno di quei sensi di colpa attecchì.

Piano piano, si avviarono alla porta. Margherita mi abbracciò in fretta; rimasi rigida. Edoardo evitò il mio sguardo. Alle otto, la casa era di nuovo silenziosa. Ed era di nuovo nostra.

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Io e Daniele restammo sul portico a guardare il cielo passare dal viola all’arancio. «Scusa se ci ho messo tanto», disse. «Mi hai vista», risposi tra le lacrime. «Davvero». Lui annuì. «Ti ho sempre vista. Avevo solo dimenticato come proteggerti». Sofia, già in pigiama, mi salì in grembo. «Mamma, per il tuo compleanno lo festeggiamo solo noi?» chiese. «Solo noi?» Le sorrisi tra le lacrime. «Sì, amore. Solo noi».

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