Quando mamma si ammalò, Vanessa si trasformò all’improvviso nella figlia esemplare. Si trasferì da lei, prese in mano le cure e mi mise da parte con un “ci penso io” che non ammetteva repliche. Ma io mia sorella la conoscevo: niente in lei era mai disinteressato. Mi sentivo tagliata fuori e impotente. Poi il medico mi consegnò l’ultima nota di mamma… e tutto cambiò.
Io sono Clara. Crescendo, tra me e Vanessa non poteva esserci contrasto più netto.
Nostra madre, Evelyn, ci aveva cresciute da sola: papà se n’era andato quando avevo cinque anni. Di quegli anni ricordo conti fatti al centesimo, notti con due turni di fila, giornate in cui lei fingeva di non avere fame perché noi mangiassimo. Vanessa, arrivata dopo, conservava memorie più morbide: quando iniziò davvero a ricordare, mamma aveva un lavoro stabile e la vita si era fatta meno dura.
Io non ho mai dimenticato il gelo dell’appartamento, le coperte lise, la signora Dolan che ci lasciava teglie fumanti sulla porta. Ho imparato presto a stare con i piedi per terra. Vanessa, invece, scivolava nella vita come se tutto le fosse dovuto.
All’università non lavorò nemmeno un’ora. Chiamava mamma per l’affitto, per i vestiti, per i weekend con le amiche. E mamma, generosa fino allo sfinimento, non le negava nulla: “è compito mio aiutare”, ripeteva, anche quando il costo era lei stessa.
Poi arrivò la telefonata che spostò l’asse delle cose. Un martedì sera, appena uscita dal lavoro, vidi il nome di mamma sullo schermo.
«Tutto bene?»
«Devo vederti. Puoi venire stasera?»
La sua voce era calma, ma sotto affioravano ansia e paura. La trovai in cucina, le mani che tremavano attorno a una tazza di tè.
«Sono stata dal cardiologo. Il cuore… cede.»
Il respiro mi si spezzò. «Quanto è grave?»
«Con terapia, forse un anno. Senza, meno.»
Le promisi che avremmo fatto il possibile. Lei, però, mi chiese di non dir nulla a Vanessa per qualche settimana: stava frequentando qualcuno, voleva risparmiarle un tracollo immediato. Ingoiai l’obiezione e rispettai la sua scelta.
Un mese dopo, Vanessa piombò da mamma in lacrime per una rottura e, ovviamente, per chiedere soldi. Mamma allora le raccontò tutto. E lei, di colpo, cambiò copione: annunciò che si sarebbe trasferita per “accudire” mamma. Avrei dovuto capirlo subito.
Il giorno seguente, entrò nel mio appartamento senza bussare.
«Smetti di andare da mamma.»
«Come, scusa?»
«Vivo già con lei. Non c’è bisogno che ci presentiamo in due ogni giorno.»
«Vanessa, sta morendo. Ha bisogno di famiglia, non di guardiani.»
«Tu vuoi solo l’eredità. Dimenticala: non ti farò entrare.»
Con lei, il denaro era sempre la vera trama. «Di eredità non mi importa. Mi importa di lei.»
Sorrise, sprezzante. «Io ci sono tutti i giorni. Tu no. Punto.»
Per settimane mi rimbalzò con scuse: «Sta riposando», «oggi non vuole vedere nessuno», «siamo dal medico». Scrissi direttamente a mamma. Un pomeriggio rispose: «Vieni subito. Sono a casa.»
Arrivai con buste della spesa. Era dimagrita, stanca, ma quando mi vide le brillò lo sguardo.
«Vanessa dice che non volevi passare — che ti sono di peso», disse piano.
Mi si ghiacciò lo stomaco. «Mai. Sono venuta più volte, ma Vanessa mi ha bloccata. Pensavo che volessi riposo.»
Annuii e le parlai dei soldi. «Ce la fai con le cure?»
«Per ora sì. Ma le spese di Vanessa… temo che finirà tutto.»
«Da oggi mi occupo io dei costi medici.»
Andai subito dal cardiologo, il dottor Patel, e dirottai su di me tutte le fatture. Erano salate — troppo per i risparmi di mamma, soprattutto con una adulta in più in casa.
Quando la situazione peggiorò, ricoverarono mamma. Vanessa non poté più escludermi. Io c’ero ogni giorno: le leggevo, le massaggiavo le mani. Vanessa ci girava attorno come un avvoltoio, attenta a farsi vedere devota.
Una sera mi trascinò in corridoio. «Mi servono soldi. Il conto di mamma è agli sgoccioli.»
«Sto pagando io le cure. Gli altri risparmi dove sono finiti?»
«Bollette, spesa, benzina. Accudire qualcuno costa.»
«Non cinquemila al mese per ‘vivere’ a casa sua», tagliai corto. Alzò le spalle e si allontanò ridendo.
Tre giorni dopo arrivò la chiamata che temevo: mamma se n’era andata nella notte. Entrai nel reparto con il gelo addosso. Vanessa era già lì con un avvocato.
«Mamma ha lasciato tutto a me. È scritto nel testamento», annunciò, esibendo carte fresche di stampa.
«Davvero? Non è ancora fredda e già sventoli documenti?»
«Non voglio drammi», concluse affilata.
Mi allontanai e cercai l’ultimo medico che l’aveva seguita. Mi guardò con una gentilezza che mi spezzò e, dalla tasca, tirò fuori una busta con il mio nome, scritto di pugno da lei: “Alla mia vera figlia”.
Mi sedetti e aprii. Dentro c’era un nuovo testamento, redatto due settimane prima, in cui mi nominava unica erede. E un biglietto:
Clara,
ti ho sempre vista. Non hai mai dovuto chiedere: conosco il tuo cuore.
Ho visto le tue cure, i sacrifici, la tua forza. So che non c’è avidità in te.
Non è questione di denaro, ma di pace. Ti lascio tutto perché so che custodirai casa, ricordi e la nostra storia.
Ti amerò sempre,
Mamma.
Appoggiai la lettera al petto e piansi in silenzio. Vanessa aveva consumato ogni energia a inseguire un patrimonio. Mamma, come sempre, aveva guardato oltre le apparenze.
Il giorno dopo depositai il nuovo testamento. Il volto di Vanessa impallidì; rimase muta. Per una volta, non aveva più repliche.
Me ne andai sapendo di non aver “ottenuto” una casa o un conto, ma qualcosa di più solido: chiarezza, verità, pace. Avrei onorato Evelyn non con la ricchezza, ma vivendo come lei mi aveva insegnato: con compassione, umiltà e forza.