«Fuori dai piedi, feccia! Non capite che fate sfigurare il mio negozio?»
Un grumo di saliva cadde a pochi centimetri dai piedi nudi di Soledad. Lei non si mospe. L’offesa, come il gelo del mattino madrileno, quasi non riusciva più a scalfirla. Ci aveva fatto il callo.
La voce del proprietario dell’edicola si alzò di nuovo, tagliente.
«Ti pare che qui sia una discarica? O togli di mezzo tua madre, quella pazza, dalla mia vetrina o chiamo la polizia, ti è chiaro?»
Soledad strinse più forte il braccio di sua madre, Inés. Inés era seduta sul marciapiede, proprio accanto a un tombino. Canticchiava una melodia spezzata, una vecchia canzone di cui ricordava solo qualche nota, e con il dito tremante disegnava ghirigori nella polvere. La gonna le era scivolata, lasciando in vista cicatrici e sporcizia sulle gambe; a lei non importava. Era immersa nel suo mondo parallelo, quello in cui solo lei riusciva a entrare.
La gente scorreva lungo la Calle de los Embajadores come un fiume distratto. Qualcuno accelerava il passo, altri rallentavano per osservare la scena. Un’anziana si fermò, scosse la testa, si fece il segno della croce e riprese la sua strada. Nessuno si fermava ad aiutare. Non lo facevano mai.
Soledad aveva dodici anni, ma le strade le avevano consumato l’infanzia. Non piangeva più quando la chiamavano «figlia della matta», «ragazza della fogna», «maledetta». Aveva già fatto collezione di soprannomi. Quello che le faceva più male, però, non erano gli insulti: era la pietà vuota, gli sguardi che dicevano «che pena» senza che la mano si allungasse mai a fare qualcosa.
Sua madre, un tempo, doveva essere stata bella. Soledad se la immaginava così. Nei rarissimi momenti di lucidità, Inés le cantava ninne nanne e la chiamava «Sol, il mio Sole». Ma quei lampi di tenerezza erano come stelle cadenti: brevi, improvvisi e già finiti quando cercavi di afferrarli. Il resto del tempo, Inés non sapeva dov’era, chi fosse o con chi stesse parlando. Urlava al suo riflesso nelle pozzanghere, tirava sassi alle ombre e fuggiva da mostri invisibili che solo lei riusciva a vedere.
Soledad non aveva mai conosciuto suo padre. Nessun volto, nessuna fotografia, neanche un nome.
«Chi è il mio papà?» aveva chiesto una volta, anni prima.
Inés l’aveva fissata con uno sguardo perso nel vuoto e aveva sussurrato: «Non lo so, Sol. Forse la pioggia. Sì, dev’essere la pioggia». E di colpo l’argomento era morto lì.
Dormivano dove capitava. A volte sotto i portici di Plaza Mayor, finché le guardie non le scacciavano; altre volte nell’atrio di un bancomat, finché qualcuno non entrava a prelevare. Ma il loro “rifugio” più frequente era un materasso fradicio, abbandonato dietro un cassonetto nei pressi del mercato del Rastro. Se pioveva, si bagnavano. Se faceva freddo, tremavano. La loro unica coperta era il silenzio.
Per Soledad, sognare era diventato un lusso che non si permetteva più. L’unica lingua che conosceva era quella della sopravvivenza.
Le mattine iniziavano sempre allo stesso modo.
Inés si svegliava urlando, graffiando l’aria come se volesse strapparle la pelle. Soledad la abbracciava forte e sussurrava: «Sono io, mamma. Sono Sol». Poi, con pazienza infinita, la lavava come poteva – spesso solo con un panno umido e l’acqua di una fontana pubblica – e la riportava nello stesso angolo a mendicare.
Sua madre tendeva la mano. Soledad osservava. Quella era la sua vita.
Ogni tanto qualche moneta cadeva nel bicchiere di plastica. Un euro, magari due. Più spesso arrivavano solo parole cattive.
«Mamma, oggi prova a non parlare troppo, va bene?» le sussurrò quella mattina, sistemandole la coperta consunta sulle spalle. «Siediti tranquilla, per favore.»
Ma Inés balzò in piedi e gridò a un taxi che passava: «Ridammi le mie ali! Le hai dimenticate nel bagagliaio!»
L’autista suonò il clacson e la insultò. Le guance di Soledad bruciarono di vergogna.
Alzò lo sguardo e dall’altra parte della strada vide una bambina in uniforme scolastica blu, perfetta, con uno stemma ricamato sul petto. Lo zaino nuovo, le scarpe lucide. La bambina la fissò per un attimo, poi distolse lo sguardo, bisbigliò qualcosa all’amica e scoppiò a ridere.
Soledad abbassò gli occhi sulle proprie gambe graffiate, coperte di polvere. Le unghie spezzate, le mani screpolate. Lo stomaco protestò, ma lei lo ignorò. La fame era un rumore di fondo costante.
Eppure, sotto tutta quella durezza, nel punto più nascosto del cuore, un desiderio continuava a pulsare: sedersi in un’aula, alzare la mano per rispondere, indossare un’uniforme, annotare parole in un quaderno che non fosse marcio d’umidità. Sognava che qualcuno, almeno una volta, la chiamasse per nome senza disprezzo.
Ma chi avrebbe mai portato a scuola la figlia di una donna che inseguiva i piccioni perché li credeva demoni? Nessuno.
Nonostante tutto, Soledad non riusciva a smettere di sperare. Osservava i bambini passare con gli zaini in spalla, le scarpe pulite, i genitori per mano, e mormorava tra sé: «Un giorno. Un giorno siederò in un banco. Un giorno scapperò da questo maledetto angolo di Madrid. Un giorno mia madre sorriderà e saprà di nuovo il mio nome».
Mentre frugava in tasca per contare l’unica moneta da 50 centesimi e le tre da 10 che erano riuscite a raccogliere, un venditore sbottò alle sue spalle: «Che miseria disgustosa!»
Soledad non si voltò. Abbracciò solo più forte la madre e sussurrò: «Amen».
Fu allora che tutto cominciò. Con un piatto di lenticchie.
Quella sera, accovacciata vicino al Mercado de San Fernando, Soledad aveva lo stomaco contorto dalla fame. Inés, stranamente tranquilla, dondolava avanti e indietro, come un disco rigato, lo sguardo perso chissà dove.
Fu in quel momento che Soledad sentì un paio d’occhi su di lei. Alzò lo sguardo.
Dall’altro lato della strada, dietro il bancone di un piccolo bar di tapas, una donna la stava osservando. Sedie di plastica, un tavolo di legno, due lavagnette con il menù del giorno e, nell’aria, un profumo denso di stufato fatto in casa. La donna era robusta, sulla cinquantina, coi capelli raccolti in uno chignon e un grembiule semplice legato in vita. Nei suoi occhi c’era qualcosa che Soledad non vedeva quasi mai: non pietà, ma attenzione.
Imbarazzata, Sol distolse lo sguardo. Odiava sentirsi guardata come un animale in esposizione.
Pochi minuti dopo, la donna attraversò la strada e si fermò davanti a loro.
«Come ti chiami?» chiese, con voce morbida.
Soledad abbassò lo sguardo sui piedi nudi e sussurrò: «Sol. Soledad».
«E lei è tua madre?»
Sol annuì, indicando la donna al suo fianco, che in quel momento cantava una ninna nanna a una bottiglia vuota.
Gli occhi della sconosciuta si fecero più dolci. «È malata, vero?»
Soledad annuì di nuovo.
«Oggi che cosa hai mangiato?»
Silenzio.
La donna non insistette. Le porse un contenitore di plastica, chiuso. «Tieni. Sono lenticchie. Mangia.»
Soledad esitò. Nessuno regalava cibo per niente. Ogni favore, per strada, aveva un prezzo.
«Stai tranquilla», le sorrise la donna. «Non voglio niente da te. Mi chiamo Carmen.»
Quello fu il giorno in cui Soledad conobbe Carmen. Le lenticchie erano calde, il chorizo tenero. Sol non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva assaggiato la carne.
Più tardi, Carmen tornò con una bottiglia d’acqua e una saponetta. «Qual è la tua storia, piccola?» chiese, aiutandola a lavarsi le mani con delicatezza.
Soledad le raccontò tutto. La pazzia di sua madre, notti al bancomat, i giorni passati a spiare una scuola attraverso il cancello, l’unica volta in cui aveva potuto sedersi in un’aula. Parlò della fame e anche dei sogni. Non pianse, ma la voce si incrinò più volte.
Carmen le asciugò le mani con un panno pulito. «Domani vieni al mio bar» disse. «Mi dai una mano a lavare i piatti e a spazzare. In cambio ti do da mangiare. Ti sta bene?»
Soledad annuì così forte che quasi le venne da ridere.
Il giorno dopo era lì. Spazzò il pavimento, sciacquò piatti, portò qualche piatto ai tavoli. E intanto osservava Carmen: il modo in cui sorrideva ai clienti, come si muoveva tra i fornelli e le sedie, la sicurezza con cui teneva in piedi il suo piccolo mondo.
Un pomeriggio, seduta sotto il bancone, Sol stava tracciando numeri nella polvere con un rametto. Carmen si chinò.
«Dove hai imparato a fare questo?»
«Guardavo dietro il cancello della scuola vicino alla metro», spiegò. «Ho memorizzato le spiegazioni della maestra.»
Carmen restò zitta a lungo. «Vuoi dire che non vai a scuola?»
«Ci sono andata tre settimane. Una vicina aveva pagato la retta, ma poi è andata via.»
La settimana successiva, Carmen le portò un quaderno nuovo e un pacchetto di matite. Quella dopo fece ancora di più.
Tre settimane più tardi, Soledad varcava il cancello di una scuola pubblica. Le mani le tremavano, il cuore le batteva all’impazzata. Indossava un’uniforme usata comprata al mercatino. Le stava larga, ma a lei sembrava un vestito da principessa.
«Mi raccomando», le disse Carmen quella mattina. «Comportati bene. Studia. Io non ho soldi da buttare, capito?»
Soledad stringeva il sacchetto di plastica con il quaderno come se fosse un tesoro.
Il primo giorno d’aula fu straniante. I compagni la fissavano, alcuni ridevano sottovoce. Ma quando la maestra fece una domanda e Soledad rispose prima ancora che qualcuno alzasse la mano, gli sguardi cambiarono.
Capiva tutto al volo. Era avanti alle lezioni, memorizzava poesie dopo averle ascoltate una sola volta, scriveva in fretta e in modo ordinato.
Un giorno, perfino la preside domandò: «Chi l’ha seguita negli studi?»
La risposta di Soledad era sempre la stessa: «La signora Carmen».
Ogni pomeriggio, dopo la scuola, tornava al bar. Puliva, aiutava, assaggiava la zuppa rimasta o la frutta avanzata. Ma la vera ricompensa era il sorriso di Carmen e quel «Brava, ragazza» che le scaldava il petto.
Per la prima volta in vita sua, Soledad si sentiva vista.
Poi, proprio quando tutto sembrava finalmente salire verso la luce, il destino cambiò di nuovo direzione.
Una sera, Carmen arrivò con una busta bianca tra le mani. «Mia sorella a Londra ha sistemato i documenti» disse con gli occhi lucidi. «Dopo sette anni.»
Soledad sorrise ingenuamente. «Allora partiamo?»
Il sorriso di Carmen si incrinò. «No, Sol. Parto io.»
Il silenzio si fece pesante.
«E io?»
Carmen sospirò. «Ho pagato la retta fino alla fine di questo semestre. Poi… spero che Dio manderà qualcun altro. Io ho fatto il massimo che potevo.»
Soledad fissò il piatto. Avrebbe voluto gridarle: «Portami con te, ti prego!», ma si limitò a annuire.
Tre settimane dopo, Carmen salì su un aereo senza saluti, senza abbracci pubblici. E nessuno si presentò più alla scuola per pagare la retta.
Un giorno il preside la chiamò nel suo ufficio. «Mi dispiace, Soledad. Senza pagamento non possiamo tenerti qui.»
Rimase seduta fuori dal cancello per ore, con lo zaino stretto al petto, ad aspettare. Forse Carmen si era sbagliata, forse sarebbe tornata correndo, chiedendo scusa. Ma la curva della strada restò vuota fino al tramonto.
Alla fine il bidello le si avvicinò. «Piccola, è ora che tu vada.»
Soledad si alzò, si scrollò la polvere di dosso e se ne andò. Ma non tornò “a casa”.
Casa dove? Il bancomat dove dormiva con la madre ora era occupato da un uomo che l’ultima volta l’aveva minacciata con una cintura. L’angolo vicino alla panetteria, dove Inés chiedeva l’elemosina, era ora presidiato da due ragazzi che sniffavano colla e insultavano chiunque li fissasse.
Solo una cosa era rimasta identica: sua madre. Sempre lì, sempre scalza, sempre immersa nei suoi fantasmi.
Quando Soledad la ritrovò vicino alla fogna quella sera, Inés stava cercando di imboccare un piccione morto con pane ammuffito inzuppato in acqua sporca.
«Mamma, sono io. Vieni, andiamo da un’altra parte», la pregò.
In risposta ricevette solo un sibilo e uno schiaffo.
Soledad si pulì il sangue dal labbro e si sedette accanto a lei comunque. Passarono la notte sul marciapiede, circondate da mozziconi e insetti. Inés rideva nel sonno. Soledad rimase sveglia, gli occhi fissi nel buio.
La mattina dopo indossò di nuovo l’uniforme scolorita e si legò i libri in un sacchetto nero. Tornò davanti alla scuola. Forse avrebbero cambiato idea.
La preside, però, fu inflessibile.
«Te l’ho già detto. Senza retta, niente scuola.»
«Lavorerò, pagherò» balbettò Soledad.
La donna la squadrò con durezza. «Tu e quella tua… madre non avete nemmeno da mangiare. Non umiliarti così. Questa non è una fondazione caritatevole. Vai via.»
Le porte si chiusero. Soledad si sedette accanto al muro e pianse finché le lacrime non le annegarono le pagine del quaderno.
Le settimane passarono.
Tornò al bar di Carmen, ma aveva un nuovo proprietario. La buttarono fuori in pochi secondi. Vendette l’ultimo paio di scarpe decenti per cinque euro, giusto per comprare pane e latte. L’uniforme perse colore, diventò di un grigio indefinito. Una notte la pioggia bagnò il quaderno, l’inchiostro si sciolse e ogni appunto diventò una macchia irriconoscibile.
La gente smise di ricordare che una volta era “la ragazzina sveglia”. Ora era di nuovo soltanto un’altra bambina di strada.
Una sera, in cerca di rifugio dall’acqua, vide un gruppetto di bambini fumare qualcosa avvolto nella carta. Uno di loro la chiamò: «Vieni, ti passa la fame.»
Lei scosse la testa. Quella era una prigione peggiore della fame.
Le restava solo una ricchezza: il suo cervello. E continuava, ostinatamente, a credere che forse esistesse un giorno diverso da quelli che aveva già vissuto.
Nonostante le botte e gli insulti, Soledad continuava a cercare la scuola.
Ogni mattina si avvicinava al muro sul retro del Colegio San Patricio, una scuola privata nel quartiere di Salamanca che, ai suoi occhi, sembrava un castello.
Pareti bianche che brillavano al sole, finestre pulite, bambini in blazer perfetti e scarpe lucide. Lei non apparteneva a quel mondo. Ma questo non bastò a fermarla.
Scoprì una finestra lasciata leggermente aperta dietro un’aula, vicino a un vecchio platano che nessuno sembrava notare. Quello diventò il suo posto segreto.
Da lì seguiva le lezioni, ripeteva sottovoce le risposte, stringendo tra le dita un mozzicone di matita. Scriveva formule e parole su fogli recuperati dai cestini: vecchi volantini, imballaggi, pezzi di cartone.
Ogni giorno restava fino alla campanella e poi spariva.
Finché, un lunedì, fu troppo lenta.
L’insegnante la notò. «E quella chi è?» esclamò.
Una delle alunne la riconobbe. «È quella che ci segue sempre. È fuori di testa come la madre.»
La classe scoppiò a ridere.
La maestra uscì di scatto, la trovò appostata vicino alla finestra e le sbottò contro: «Che ci fai qui? Chi ti ha detto che puoi stare a spiare?»
«Voglio solo ascoltare… imparare» sussurrò Soledad.
«Pensi che questa sia una piazza pubblica?»
«Non disturberò. Lo giuro.»
«Vai da tua madre a dirle di pagare la retta!» ribatté la donna. «Sempre ammesso che tu sappia davvero chi è.»
La maestra prese un righello e fece un passo verso di lei. Soledad scappò via di corsa, le lacrime che le esplosero sul viso solo quando fu già nella strada successiva.
Il giorno dopo ci riprovò, in un’altra scuola.
Non tentò di affacciarsi alla finestra. Si accucciò dietro un pezzo di recinzione rotto e restò lì ad ascoltare, sincronizzando il respiro con le voci dei bambini che recitavano tabelline e vocaboli in inglese.
Un giorno, un ragazzino la vide, le tirò un sasso e gridò: «Strega, vattene!»
La pietra le colpì la spalla. Soledad rimase immobile. Quando un custode la sorprese, la strattonò via dalla recinzione. «Se ti rivedo qui, saranno guai. Hai capito?»
Quella sera si sedette sotto un albero e ricominciò a scrivere numeri nella polvere. Il vento cancellava tutto; lei ricominciava da capo.
Di notte, mentre la madre brontolava e rideva nel sonno, Soledad fissava il cielo.
«Dio» sussurrò. «Perché mi hai fatto così sveglia se poi mi chiudi tutte le scuole in faccia? Che me ne faccio di un cervello che non posso usare?»
Il cielo le restituì solo il rumore lontano del traffico.
La prima volta che portò una pila di giornali in testa, ebbe l’impressione che il collo dovesse spezzarsi. I fogli, legati con una corda, erano vecchi di un giorno, ma era il massimo che l’edicolante le aveva concesso “a credito”.
«Guai a te se li strappi» l’aveva minacciata. «Se uno cade e si rovina, lo paghi tu. E se ti vedo seduta a riposare, sei fuori.»
Soledad aveva annuito. Era abituata a condizioni che sembravano sempre una punizione.
Le strade di Madrid non si preoccupavano di quanti anni avesse o se i suoi piedi fossero pieni di vesciche. Volevano solo che il lavoro fosse fatto.
Distribuire giornali sembrava una guerra. Donne più grandi la spintonavano, ragazzi più forti le fregavano i passanti da sotto al naso e la deridevano, gli autobus le sfrecciavano accanto, gli automobilisti le inveivano contro.
Ma lei continuava. Ogni moneta che finiva nel palmo, Soledad la traduceva in cibo. «Dieci centesimi in meno di fame», mormorava.
A metà giornata le gambe le tremavano, la bocca le bruciava dalla sete. Si fermò un attimo sotto un’impalcatura, contò i giornali consegnati e le monete guadagnate: due euro. Se riusciva a distribuire altri dieci giornali, forse avrebbe potuto permettersi un panino e un succo.
Un uomo passò, la guardò e lasciò cadere una banconota da cinque euro sulle monete. «Comprati qualcosa da mangiare, piccola.»
«Grazie, signore» mormorò.
Non fece in tempo a gioire: un ragazzino più grande si avventò sulla banconota, gliela strappò da sotto il naso e sparì. Soledad gli corse dietro fin quasi alla metro, ma fu inutile.
Si ritrovò seduta per terra, il respiro spezzato e le lacrime che scendevano. La gente le passava accanto come se fosse invisibile.
Quella notte tornò da sua madre con un po’ di pane secco.
«Guarda, mamma, ti ho portato da mangiare», disse piano.
Inés la fissò con occhi annebbiati. «Chi sei? L’angelo con le ali nere?»
«No, mamma. Sono io. Soledad.»
Lei rise, stringendo il pane come fosse un tesoro. «La mia bambina è una stella» mormorò. «È caduta nel mare di olio e non è mai tornata.»
Soledad spezzò il pane in bocconi minuscoli e li porse alla madre. Lei non mangiò. Era troppo stanca.
Più tardi trovò uno specchio rotto vicino al bancomat. Si guardò: viso bruciato dal sole, occhi gonfi, labbra screpolate. Sembrava tutto fuorché una scolara.
Eppure, quando si chiese a voce alta: «Se dividi sei per tre, quanto fa?», la risposta arrivò chiara: «Due.»
Per quanto il mondo tentasse di schiacciarla, la sua mente rimaneva lucida.
Il giorno seguente era di nuovo in strada, i piedi piagati, ma il cuore ostinato. Distribuiva giornali, sì, ma in realtà cercava qualcos’altro: una sola occasione per dimostrare che la figlia di una donna delirante non era destinata a morire su un marciapiede.
Quel giorno, al St. Patrick’s College, Soledad non avrebbe dovuto esserci.
La scuola era protetta da cancelli alti, guardie in uniforme, auto di lusso che lasciavano i ragazzi davanti all’ingresso. Era un posto per i figli dell’élite, non di certo per una ragazzina scalza abituata a dormire vicino ai cassonetti.
Ma lei quel cancello lo conosceva bene. Lo aveva osservato per mesi da lontano. Quella mattina, qualcosa dentro di lei le sussurrò: «Avvicinati.»
Si infilò lungo il lato della recinzione, dove le erbacce coprivano quasi il metallo. Trovò un’apertura vicino a un tubo di scarico, si fece piccola piccola e passò. Il cuore le martellava così forte che le sembrava di poterlo sentire nelle orecchie.
Riuscì a raggiungere un grande platano vicino al campo sportivo. Da lì, attraverso una finestra socchiusa, vedeva perfettamente un’aula.
Si accoccolò a terra, tirò fuori una matita rosicchiata e iniziò a copiare le parole che sentiva su un pezzo di giornale.
Era nel mezzo di una lettura in inglese quando una voce alle sue spalle la fece sobbalzare.
«Sei tu la ragazza che fanno sempre scacciare, vero?»
Soledad si voltò di scatto.
Una coetanea la fissava, in uniforme perfetta, i capelli raccolti in una coda alta. Sul petto portava un badge con scritto: Martina Vargas.
«Io non… non volevo fare niente di male» balbettò Soledad, indietreggiando. «Stavo solo ascoltando.»
«Perché?» chiese Martina, piegando la testa da un lato.
«Perché voglio imparare.»
Martina si accovacciò accanto a lei. «Tu non vai a scuola?»
«No. Mia madre è malata. Viviamo per strada.»
La ragazza guardò le sue scarpe lucide, poi di nuovo Soledad. «Anche di me ridono» confessò. «Dicono che sono una frana, che mio padre paga la scuola per farmi passare di classe.»
Soledad sgranò gli occhi. «Tu?»
Martina annuì. «Non capisco quasi niente delle lezioni. Durante la ricreazione vengo qui per non sentirmi giudicata.»
Restarono qualche secondo in silenzio, poi Martina indicò l’erba. «Ti va di sederti?»
Si sedettero sotto il platano. Martina tirò fuori un libro e glielo mostrò. «Me lo spieghi? Non ci capisco nulla.»
Era una pagina sulle frazioni. Soledad la studiò un momento, poi cominciò a spiegare: denominatori, numeratori, equivalenze. Martina la seguiva come se finalmente qualcuno le parlasse in una lingua comprensibile.
Dopo pochi minuti, cominciò a svolgere gli esercizi da sola. «Ci riesco!» esclamò. «È la prima volta che capisco davvero!»
«Non sei stupida» disse Soledad, timida.
«E tu non sei solo intelligente. Sei speciale», ribatté Martina, con un sorriso grande.
Da quel giorno cominciarono a incontrarsi sotto il platano ogni ricreazione.
Soledad arrivava con il suo vestito logoro e il sacchetto di plastica pieno di fogli spiegazzati. Martina portava panini, quaderni, una spazzola, a volte persino un paio di scarpe da ginnastica di scorta (che Sol però portava solo quando era sicura che per strada nessuno gliele avrebbe rubate).
Si scambiavano più di formule e regole grammaticali. Soledad raccontava storie, reali e inventate: stelle innamorate dei bambini di strada, mamme che guarivano grazie alla pioggia, scuole che aprivano i cancelli a chi aveva più fame di imparare che di mangiare.
Martina ascoltava come se ogni parola fosse una medicina.
Per la prima volta, Martina non si sentiva più l’ultima della classe. E Soledad smetteva, almeno per un’ora al giorno, di sentirsi un’ombra.
L’unica cosa che non condividevano era il loro segreto con gli adulti. Martina non aveva il coraggio di parlare di Soledad con gli insegnanti, né tanto meno con suo padre: don Alejandro Vargas, uno degli uomini più ricchi e temuti di Madrid.
«Come glielo dico?» pensava spesso. «Papà, la mia migliore amica è una ragazzina che vive per strada?»
Così il platano divenne il loro rifugio, un piccolo universo dove contavano solo i quaderni, le risate e i sogni.
Un giorno, però, l’equilibrio si spezzò.
Martina era già sotto l’albero, con la lunch box pronta, due forchette di plastica e il biscotto preferito di Soledad in un angolino. Aspettava.
Sentì il rombo profondo dei SUV che entravano nel campus. Vedeva le guardie raddrizzare la schiena, gli insegnanti fermarsi a metà frase.
Riconobbe subito quell’auto.
«Papà» mormorò, con lo stomaco che si stringeva.
Don Alejandro scese dalla Mercedes, impeccabile nel suo completo scuro, seguito da due assistenti.
Proprio in quel momento comparve Soledad, scalza, un po’ affannata. «Eccomi, scusa. Ho dovuto prendere dell’acqua prima di venire.»
Martina non riusciva a sorridere. Lo sguardo fisso su suo padre.
«È lui?» chiese Soledad, quasi senza voce.
Martina annuì.
«Martina!» La voce di don Alejandro risuonò nel prato.
Lei fece qualche passo verso di lui.
«Che ci fai qui? E con chi?» chiese, guardando oltre la figlia. I suoi occhi si posarono sulla ragazzina magra, vestita di stracci, con una busta di plastica tra le mani.
«Lei è Soledad» disse Martina, mettendosi istintivamente accanto a lei. «È la mia amica.»
«La tua… amica?»
«Mi aiuta a studiare. Se sono migliorata è grazie a lei. Capisco di più quando me lo spiega Sol che in classe.»
Il silenzio che seguì fu pesante.
Don Alejandro guardò Soledad dritto negli occhi. «Dove sono i tuoi genitori?»
«Non conosco mio padre, signore» rispose lei, con la voce rotta. «Mia madre è malata. Chiede l’elemosina per strada, vicino a Lavapiés. La gente la chiama pazza. Non abbiamo una casa.»
Uno degli assistenti distolse lo sguardo, a disagio.
«E tu non vai a scuola?» continuò l’uomo.
Soledad scosse la testa. «Chi pagava la retta è partito. Da allora nessuno mi prende.»
Martina le prese la mano.
Don Alejandro fissò per un attimo quelle due mani intrecciate: la mano della figlia e quella della ragazzina che il mondo considerava spazzatura. Qualcosa dentro di lui si mosse.
«Quindi vieni qui ogni giorno». Parlava piano. «Per insegnare a mia figlia senza che nessuno lo sappia.»
Martina annuì. «Volevo dirtelo, ma avevo paura che mi proibissi di vederla.»
«Paura di me?» ripeté lui, quasi ferito.
«Paura che tu la mandassi via» sussurrò Martina.
Don Alejandro rimase qualche istante in silenzio. Poi si voltò verso Soledad.
«Portami da tua madre» disse con calma. «Per favore.»
Lei sbiancò. «La prego, non la punisca. Non sa niente di me qui. Se preferisce, smetto di venire. Ma non la faccia soffrire.»
«Non intendo farle del male» rispose lui, con una dolcezza che sorprese anche se stesso. «Voglio solo vederla.»
«Prometti che non caccerai Sol?» intervenne Martina.
Lui guardò entrambe. «Lo prometto.»
Mezz’ora dopo, il corteo di SUV si fermò in una via sporca vicino a Lavapiés.
Soledad indicò un punto del marciapiede. «È lì.»
Inés era a terra, dondolava avanti e indietro, le mani a raccogliere qualcosa di invisibile, gli occhi persi.
Don Alejandro le si avvicinò e si inginocchiò accanto a lei.
«Signora» disse piano.
Lei lo fissò e sussurrò: «Hai portato il cielo? Ho perso le mie ali nella tua macchina.»
Il miliardario deglutì.
«Le serve aiuto» disse a bassa voce, rivolto all’assistente. «Quello vero.»
Soledad si avvicinò. «Non voglio soldi, signore» mormorò. «Voglio solo che la curino.»
Don Alejandro annuì. «Conosco una clinica. La seguiranno i migliori.»
Dettò pochi ordini secchi: chiamare il dottor Ferrer, preparare un posto nella migliore unità psichiatrica.
Poi tornò da Soledad.
«E tu?» chiese.
Lei lo guardò, senza capire.
Si abbassò alla sua altezza, le posò una mano sulla spalla. «Da oggi non sei più una bambina di strada» disse. «Da oggi, se vuoi… hai un padre.»
Soledad pensò che fosse uno scherzo crudele. Continuò a crederlo anche mentre l’ambulanza portava via sua madre con medici gentili, anche mentre la Mercedes si allontanava dalla strada dove aveva vissuto quasi tutta la vita, anche quando Martina le prese la mano e le sussurrò: «Ora sei al sicuro».
Quella notte fece il primo vero bagno dopo anni. Una domestica le pettinò i capelli con pazienza, districando nodi e sporcizia. Don Alejandro la presentò alla casa: «Questa è Soledad. Da oggi vivrà qui con noi. Avrà lo stesso rispetto che pretendete per mia figlia.»
Il giorno seguente, davanti allo specchio della stanza di Martina, Soledad indossava per la prima volta una divisa nuova del St. Patrick’s. Camicia bianca, blazer, gonna, calze. Quasi non si riconosceva.
«Sembri mia sorella!» esclamò Martina, saltellando per la stanza.
«Sembra un sogno» mormorò Soledad.
«Non lo è» ribatté l’amica. «Papà ha detto che qui è casa tua. Che questo è il posto giusto per te.»
«Ma io sono la figlia di una donna malata» obiettò lei, con un tremito nella voce.
Martina le prese le mani. «No. Adesso sei anche figlia di mio padre.»
Quella mattina entrarono a scuola affiancate, con la stessa uniforme, lo stesso zaino, gli stessi passi incerti.
Gli alunni mormoravano. Qualcuno riconobbe la ragazzina che spiava dalla finestra. Ma oggi Soledad non nascondeva più il viso dietro un vetro: varcava la porta principale come alunna.
In aula alzava la mano a ogni lezione. Le risposte arrivavano rapide, precise. I professori cominciarono a scambiarsi sguardi tra loro.
Alla fine della settimana, il preside convocò un incontro con il corpo docente. «Questa bambina è fuori dall’ordinario» disse uno di loro. «Da dove viene?»
Il preside sorrise. «Dalla strada, pare. Ma adesso è parte della scuola.»
Don Alejandro, intanto, mantenne la sua parola.
Inés venne ricoverata nella clinica del dottor Ferrer. Le sue condizioni erano gravi, ma non prive di speranza. «Con le cure giuste ci vorrà tempo, ma possiamo migliorare la sua stabilità» spiegò il medico.
Soledad andava a trovarla una volta alla settimana. Le prime volte la madre non la riconobbe nemmeno. Imprecava, piangeva, parlava a presenze che non esistevano.
Alla quinta visita, però, accadde qualcosa.
Inés la fissò a lungo, poi mormorò: «Sei bella come il cielo dopo la pioggia.»
Soledad scoppiò in lacrime.
Passarono i mesi.
La notte, ancora, a volte si svegliava di soprassalto, convinta di essere sul marciapiede. Se qualcuno alzava la voce o faceva un gesto brusco, Sol sobbalzava. Le cicatrici dentro non sparivano in fretta.
Ma pian piano il suo sorriso diventò più sicuro. Cominciò a sedersi nei primi banchi, partecipò alle lezioni, si fece altri amici. Nessuno, però, prese mai il posto di Martina.
Martina, da parte sua, cambiò completamente. I suoi voti salirono, la timidezza diminuì. Gli insegnanti la lodavano. Lei sapeva bene a chi doveva dire grazie.
Un venerdì, don Alejandro chiamò Soledad nel suo studio.
«Siediti» le disse.
Lei si accomodò sull’orlo della sedia, le mani intrecciate.
«Ti ho osservata» cominciò lui. «Hai cambiato la vita di mia figlia. E la mia.»
«Io volevo solo studiare» rispose, arrossendo.
Lui sorrise. «E continuerai a farlo. Per me ormai sei mia figlia. E per te farò lo stesso che faccio per Martina.»
Aprì un cassetto e le porse un tablet nuovo, già programmato con libri digitali e app scolastiche.
Soledad lo prese come se temesse che potesse svanire. «Grazie» sussurrò. «Per avermi visto, quando nessuno lo faceva.»
Don Alejandro le appoggiò una mano sulla testa. «Non sei mai stata invisibile, Sol. Il problema era negli occhi di chi ti guardava, non in te.»
Quella sera, nel giardino della villa, sotto un platano simile a quello della scuola ma circondato da panchine e lampioni, Soledad guardò il cielo.
«Mi chiamo Soledad» disse piano. «Un tempo ero “la figlia della pazza”. Adesso sono l’amica di Martina. Studentessa di San Patricio. E ho un padre che ha scelto di chiamarmi figlia.»
Chiuse gli occhi e aggiunse, in un sussurro: «Dio, ti chiedevo solo tre cose: che mia madre avesse una possibilità di guarire, che qualcuno mi mandasse a scuola e che almeno un’anima si affezionasse a me. Me ne hai date tre in una volta sola. Non so se lo merito, ma ti prometto che non sprecherò questa opportunità.»
Da allora, la ragazzina che tutti avevano etichettato come “senza futuro” diventò un esempio vivente di ciò che possono fare la gentilezza, la fiducia e lo studio.
Per don Alejandro, per Martina e per chiunque fosse disposto a vedere oltre gli stracci e la polvere, Soledad divenne la prova concreta che un gesto di vero interesse può spezzare il ciclo della miseria e del rifiuto.
Perché nessun bambino nasce sbagliato. Ogni vita porta in sé un potenziale enorme. Basta che qualcuno apra una porta, tenda una mano, dica: «Ti vedo. Proviamoci insieme.»