Dopo la morte di mia moglie ho portato mio figlio in vacanza: una frase sulla spiaggia ci ha cambiato la vita

A trentiquattro anni ho vissuto l’impensabile: perdere mia moglie e ritrovarmi a crescere da solo nostro figlio di cinque anni. Per quanto cercassi di restare saldo, la casa era diventata un museo di ricordi che pungevano. Così, nel tentativo di riportare un raggio di normalità, decisi di portarlo al mare: pensavo che l’odore di salsedine e il rumore delle onde potessero allentare il nodo in gola.

All’inizio funzionò. Lui rideva, con le mani sporche di sabbia, e correva incontro all’acqua come se ogni schizzo cancellasse un pezzetto di dolore. Anch’io, piano, sentivo riaccendersi qualcosa. Finché, una sera, puntò il dito verso la riva: «Papà, guarda… la mamma è tornata!» Mi voltai di scatto. Lontano, una donna con la stessa andatura, gli stessi capelli castani. Mi mancò il respiro. Per un attimo il tempo si piegò, confondendo ricordo e realtà.

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Quell’istante aprì crepe che avevo sigillato in fretta. Mi costrinse a rimettere in fila domande che avevo evitato sulle circostanze della sua morte, i vuoti, le incongruenze. Credevo che accettare bastasse; la spiaggia mi mostrò che, per guarire, a volte bisogna attraversare la verità, non aggirarla.

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Quella visione, più che un miraggio, fu una svolta. Capìi che la guarigione non è una linea retta e che la “fine” arriva solo quando smetti di scappare. Qualunque cosa emergesse, una certezza restava immutata: mio figlio veniva prima di tutto. A lui devo stabilità, amore e la promessa che, anche nei giorni più duri, la vita l’avremmo affrontata insieme.

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