Il vento ululava come una bestia ferita, spingendo cunei di neve attraverso la strada di campagna deserta.
Amelia Reynolds serrò il volante fin quasi a farsi male alle nocche, gli occhi fissi sul parabrezza velato di condensa. La berlina lucida sbandò sul ghiaccio e si piantò. Le spie del cruscotto lampeggiarono un attimo e poi buio. Il motore si spense.
«Adesso no…» sibilò, dando un colpo al volante. Provò il telefono: nessuna tacca. Fuori la bufera montava.
Aprì lo sportello quel tanto che bastava e un’onda di gelo le mozzò il fiato.
Si strinse il cappotto al collo e si fece strada nella tormenta. Gli stivaletti neri affondavano nella neve a ogni passo.
Doveva raggiungere un gala di beneficenza a ore dalla città. Il GPS le aveva suggerito una scorciatoia, e ora era bloccata in mezzo al nulla.
In lontananza, oltre un campo imbiancato, tremolò una luce.
Una casa? Un fienile? Non sapeva dirlo, ma era l’unica possibilità.
Avanzò contro vento e neve, zuppa e con le mani intorpidite, finché non si trovò sotto il portico di una vecchia fattoria di legno. Bussò con forza.
La porta cedette con un cigolio. Un uomo alto, spalle larghe, camicia di flanella e jeans consumati apparve sulla soglia. Il volto segnato dal lavoro, gli occhi quieti, insondabili. Niente sorriso.
«Buonasera,» fece lei con voce tremante. «L’auto si è rotta. Non ho campo. Avrei… bisogno di aiuto.»
Lui la studiò per un istante, poi annuì e si fece da parte.
Dentro l’aria era tiepida, non come un impianto moderno ma come il calore vivo di una stufa di terracotta. Nell’angolo scoppiettava la legna; sul fuoco sobbolliva qualcosa dall’odore nutriente.
«Scaldati qui,» disse chiudendo la porta.
Amelia si tolse i guanti con dita rigide. Il freddo le stava ancora dentro. L’uomo tornò al banco della cucina e riprese a pulire un pesce con gesti netti e sicuri.
Nessuna domanda. Nessuna curiosità su chi fosse.
«Grazie,» mormorò. «Mi chiamo Amelia. Amelia Reynolds. Io—»
«Lo so,» la interruppe. «Ti ho vista in TV. Quella degli hotel.»
Lei inarcò un sopracciglio, spiazzata da un riconoscimento in quel posto.
«E tu?»
«Mihai. Contadino, pescatore, falegname. Dipende dal giorno.»
Lo disse senza ironia, come si direbbe “oggi nevica”. Quella semplicità la disarmò.
«C’è un telefono? Se esco magari prende…»
«Niente telefono,» rispose piano. «Ho tolto l’antenna anni fa. Non mi serviva.»
Amelia restò a guardarlo. «E come fai a… vivere così?»
«Meglio di molti,» fece lui. «Niente debiti, niente promemoria. D’inverno taglio legna, in primavera semino, pesco quando ho fame. È abbastanza.»
Lei rimase zitta. La sua vita era un vortice di riunioni, cene, notifiche senza sosta. Quell’“è abbastanza” le risuonò addosso come una parola straniera.
«Non sono abituata a chiedere aiuto,» ammise.
«La tempesta non guarda il conto in banca,» disse Mihai. «Con questo tempo, siamo tutti uguali.»
Le porse una scodella. «Zuppa. Ti rimette in sesto.»
Il vapore le scaldò il viso. Il gesto, così semplice, le fece bruciare gli occhi.
La notte passò lenta. Mihai le lasciò il suo letto e si sistemò sul pavimento senza proteste. Al mattino il vento era sceso e la neve cadeva fine. Lui uscì e tornò con un cavallo attaccato a una slitta di legno.
«Ti porto al villaggio,» disse. «Là prende. Qualcuno verrà.»
Mentre scorrevano fra campi bianchi e alberi scuri, Amelia chiese: «Perché vivi qui? Da solo?»
Mihai le lanciò uno sguardo breve. «Ho perso tutto una volta. Così ho trovato la libertà.»
Non aggiunse altro. In paese, l’aiutò a scendere e ripartì senza voltarsi.
Tre mesi dopo, l’alta società bisbigliava. Amelia Reynolds stava liquidando gran parte del suo impero. Aveva lasciato consigli di amministrazione, red carpet e tavoli d’onore. Aveva comprato una casa piccola, lontano dai riflettori, e smesso di inseguire inviti.
C’era chi parlava di follia, chi di esaurimento. Lei sapeva.
A volte servono una bufera e un’auto in panne per ricordarti cosa conta davvero.