La voce di Misha, al telefono, tremava come una foglia.
— Nonna… ti prego. Portami via. Papà ha ricominciato a bere. Ieri mi ha picchiato. Non voglio più restare qui. Per favore…
Galina si aggrappò al cellulare con una forza tale che le nocche le si sbiancarono.
— Tesoro mio, ascoltami. Dov’è adesso tuo padre?
— Dorme. In cucina. Io mi sono chiuso in bagno. Sto usando il telefono di Vova, un compagno di classe… il mio papà l’ha buttato dalla finestra.
Una fitta le attraversò il petto.
— Arrivo subito. Subito. Tu resta zitto e fermo, hai capito? Non fare rumore.
— Nonna… ha bloccato la porta. Per non farmi scappare da te.
Galina si infilò il cappotto senza neppure chiudere bene i bottoni. Le mani le tremavano. Nella testa rimbalzava un solo pensiero, ossessivo: arrivare in tempo.
Il taxi sembrava strisciare. Ogni semaforo era una condanna. Provò a chiamare Ivan. Una volta. Due. Dieci. Sempre lo stesso vuoto: nessuna risposta.
Un anno prima, Lena se n’era andata. Tre mesi di ospedali, speranze mozzate e poi il silenzio definitivo. Quel giorno Galina aveva detto, senza esitazioni: «Misha viene con me». Aveva una stanza libera, una pensione dignitosa, la schiena ancora forte. Ce l’avrebbe fatta.
Ma Ivan si era messo davanti alla porta come un muro. Ubriaco persino al funerale.
— È mio figlio. Me la caverò da solo.
Non se l’era cavata.
All’inizio beveva solo la sera, come per affogare il lutto. Poi aveva cominciato al mattino. Il lavoro era andato perso. Restavano la pensione di Galina e qualche sussidio tirato via a fatica. E quella casa, sempre più buia, sempre più sporca.
Quando Galina passava a trovarli, Misha apriva la porta con quegli occhi troppo grandi su un viso sempre più magro. Dentro si respirava un odore acre: alcol, piatti vecchi, umidità. Sul tavolo, bottiglie vuote. Ivan sul divano, non rasato, addosso la stessa maglietta di giorni.
— Misha, vuoi venire a vivere da me? — gli aveva chiesto una volta, piano.
Il bambino aveva abbassato lo sguardo.
— Papà non vuole.
— E cosa ti dice?
— Che se me ne vado mamma si rattristerà… dall’aldilà. Che sarei un traditore.
Galina aveva serrato le labbra fino a farle male. Usare il nome di Lena, la sua Lena, come catena… quello era l’abisso.
Aveva provato con i servizi sociali. Erano arrivati. Ivan li aveva accolti sobrio, miracolosamente lucido. Casa in ordine. Misha vestito bene, pettinato.
— Qui va tutto bene, vero figlio mio?
E Misha aveva annuito. Perché cos’altro avrebbe potuto fare?
Il telefono di Galina squillò all’improvviso: numero sconosciuto.
— Pronto? Sono Vova… il compagno di classe di Misha. Mi ha detto di chiamare, la batteria sta morendo.
— Grazie, Vova. Grazie davvero.
Terzo piano. Le scale sembravano infinite. Galina si trascinava aggrappata al corrimano, con il cuore che le batteva nelle orecchie. Ti prego… ti prego…
La porta era chiusa. Suonò. Nessun rumore. Bussò, più forte.
— Ivan! Apri! Sono io!
Silenzio. O forse… solo finta assenza.
Galina compose il 112 con dita rigide.
— Polizia? Mio nipote è chiuso in casa con suo padre ubriaco. Il bambino mi ha chiamata chiedendo aiuto. L’indirizzo è…
I minuti che seguirono furono un’agonia. I vicini sbucavano dalle porte socchiuse, spiavano, mormoravano. Galina non vedeva nulla. Solo quel legno davanti a sé, quella porta che divideva un bambino dalla salvezza.
Quando arrivarono due agenti giovani, il loro “protocollo” le sembrò una crudeltà.
Suonarono. Bussarono.
— Signore, apra! Polizia!
Ancora silenzio.
Galina non riuscì a trattenersi.
— Forzate la porta! Dentro c’è un bambino!
— Signora, dobbiamo…
— Lo picchia! È chiuso dentro!
Gli agenti si scambiarono uno sguardo. Uno di loro andò all’auto a prendere gli attrezzi.
La serratura cedette al terzo tentativo. Ma la porta non si aprì subito: qualcosa la bloccava dall’interno. Una scaffalatura. Una barricata.
Quando finalmente riuscirono a entrare, l’aria li colpì come un pugno: alcol stantio, sporcizia, muffa.
Ivan era in cucina, riverso a terra. Russava.
— Misha! — gridò Galina, la voce spezzata.
Il bagno era chiuso dall’interno.
— Misha, amore, sono la nonna! Apri!
Un clic. La porta si socchiuse. E Galina lo vide: rannicchiato nell’angolo, un vecchio orsetto di peluche stretto al petto. Quello che Lena gli aveva regalato quando aveva tre anni.
Un livido scuro sotto l’occhio. Il labbro spaccato. La maglietta strappata.
— Nonna…
Galina crollò in ginocchio, come se le gambe le avessero ceduto la resa. Lo strinse a sé. Misha si aggrappò a lei e scoppiò a piangere piano, soffocato, come piangono i bambini che hanno imparato ad avere paura perfino del proprio respiro.
— Basta, amore mio. Basta. Ti porto via. Ora. Con me.
Intanto gli agenti scuotevano Ivan.
— Si alzi. Come si chiama?
Ivan borbottò, confuso.
— E voi chi siete? Che ci fate a casa mia?
— Abbiamo ricevuto una segnalazione di violenza domestica.
Ivan tentò di rimettersi in piedi. Barcollò. Vide Galina con Misha tra le braccia.
— Ah… sei venuta, eh. Vuoi portarti via il ragazzino? Non te lo do!
— Si calmi, signore.
— È mio figlio! Mio! Capito?!
Fece un passo, poi ricadde su una sedia, senza forza.
E all’improvviso, con una voce piatta, disgustosamente indifferente, disse:
— Prenditelo. Tanto con lui sto male. Urla sempre. Vuole da mangiare.
Misha si strinse, come se quelle parole fossero un’altra botta.
— Papà…
— Zitto! È colpa tua se è morta tua madre! Ti ha partorito e s’è rovinata!
Galina si mise davanti al nipote, come uno scudo.
— Basta! Non davanti a lui!
Ivan rise senza ridere.
— Bambino… è un peso, non un bambino. Portalo via e lasciami in pace.
Mentre gli agenti compilavano il verbale, Galina raccolse in fretta le poche cose di Misha: due magliette, un paio di jeans, qualche libro, l’orsetto.
— I documenti? — chiese, senza neppure guardarlo.
— Che ne so… saranno da qualche parte.
Li trovò in un cassetto: certificato di nascita, tessera sanitaria, carte stropicciate ma fondamentali. Come se la vita di quel bambino fosse stata buttata lì insieme alle briciole.
Fuori, sul pianerottolo, Misha inspirò profondamente. Come se per mesi avesse respirato a metà.
— Andiamo a casa — disse Galina.
— A casa tua?
Galina gli strinse la mano, magra e fredda.
— A casa nostra. Da oggi è anche casa tua.
Nel taxi Misha non parlò. Guardava fuori dal finestrino, fisso, come se stesse imparando da capo il mondo. Galina gli teneva la mano, senza lasciarla un secondo.
A casa, la prima cosa fu il bagno caldo. Poi la cucina: pasta al formaggio, tè, biscotti. Cose semplici, ma vere.
Misha mangiava in silenzio, con una fame che faceva male anche solo a guardarlo.
— Domani andiamo al pronto soccorso — disse Galina. — Quel livido va controllato.
— Non serve, nonna… passerà.
— Serve eccome. E andrò anche a scuola. Parlerò con gli insegnanti.
Misha abbassò gli occhi.
— È tanto che non ci vado… forse un mese.
— Recupereremo. Un passo alla volta.
Quella notte lo sistemò nella stanza di Lena. Era rimasta intatta. Solo le lenzuola erano fresche, pulite, profumate di bucato.
Misha si sdraiò stringendo l’orsetto.
— Nonna… papà verrà a riprendermi?
Galina gli accarezzò i capelli.
— Non verrà. E se anche ci provasse, non te lo permetterò.
— Ma… è mio padre.
— E tu sei un bambino. E io sono qui.
Quando spense la luce, sentì che Misha piangeva nel cuscino. Piano. In silenzio. Galina rimase fuori dalla porta, con la mano sul legno, e lasciò che quel dolore uscisse. Non poteva cancellarlo. Poteva solo esserci.
Al mattino andarono al pronto soccorso. Poi ai servizi sociali. Lì Galina la conoscevano già.
— Finalmente l’ha portato via?
— Sì — rispose lei, e quella sillaba aveva dentro un anno intero di colpa e paura.
— Ci dia i documenti. Avvieremo la tutela provvisoria.
Le settimane corsero veloci. Scuola, colloqui, compiti recuperati. Un tutor per rimettere insieme ciò che era stato spezzato. Ivan non chiamò mai. Come se quel figlio fosse stato un oggetto ingombrante di cui sbarazzarsi.
Eppure Misha, giorno dopo giorno, cambiava. Non scattava più a ogni rumore. Non si chiudeva in bagno quando sentiva un passo pesante. Un sorriso timido, raro, cominciò a farsi spazio sul suo viso.
Cucinavano insieme. Galina gli insegnò i blini, quelli che Lena adorava da bambina.
— Non mi vengono, nonna… si attaccano.
— Ti verranno. Scalda meglio la padella. E abbi pazienza con te stesso.
La sera leggevano sul divano. Galina a voce alta, Misha raggomitolato come un gattino, finalmente al sicuro.
Un sabato, mentre impastavano per i pirožki, Misha parlò senza alzare lo sguardo.
— Nonna… posso chiederti una cosa?
— Certo, amore.
— Mamma… si è ammalata per colpa mia?
Galina si fermò. Si asciugò le mani, lentamente, come per non spezzarsi.
— No. No, tesoro. Assolutamente no. La mamma si è ammalata e basta. Nessuno ha colpa. Tu non hai colpa di niente.
— Ma papà diceva…
— Papà parlava con la vodka addosso e il dolore in gola. Non ascoltarlo. Tua mamma ti amava più della sua vita. Tu eri la sua luce.
Misha annuì. Rimase in silenzio, ma quel silenzio non aveva più lo stesso peso.
Poi sussurrò:
— Grazie per avermi portato via. Non voglio più tornare lì. Mai.
Galina lo abbracciò forte. Misha affondò il viso nel suo grembiule.
— Non devi tornarci. Sei con me. E ci resterai.
— E se papà…?
— Se anche venisse, non ti porterà via. Te lo prometto.
Quella sera bevvero tè caldo in cucina, con i pirožki ancora tiepidi. Fuori cadeva la prima neve dell’anno: lenta, fitta, come un lenzuolo nuovo che copriva tutto.
— Sai cosa diceva tua mamma? — sorrise Galina, guardando i fiocchi. — Che la prima neve porta felicità.
— Davvero?
— Davvero. Lei si illuminava quando vedeva i primi fiocchi.
Misha restò a lungo alla finestra. E sul suo viso, finalmente, si disegnò un’ombra di sorriso.
— Nonna… domani posso andare in pista di pattinaggio? I ragazzi della classe mi hanno invitato.
Una domanda normale. Semplice. Di quelle che non parlano di paura, né di botte, né di porte chiuse.
Galina sentì gli occhi pizzicare.
— Certo che puoi. Dobbiamo solo trovare i pattini… saranno da qualche parte in dispensa.
Misha annuì, come se stesse imparando di nuovo cosa significa essere un bambino.
Galina lo guardò e pensò: ce la faremo. Non dimenticherà quell’incubo. Ma imparerà a vivere oltre l’incubo.
Fuori, la neve continuava a scendere.
La prima.
Quella della felicità.