«All’anniversario di nozze, vidi mio marito versare qualcosa nel mio bicchiere. Così lo scambiai con quello di sua sorella.»

Alla cena del nostro anniversario, mio marito sollevò il calice con un’aria solenne. Feci lo stesso, ma un dettaglio mi gelò: con un gesto rapido, quasi impercettibile, aveva lasciato cadere qualcosa nel mio vino. Un brivido mi strinse lo stomaco. Decisi che non avrei rischiato.

Aspettai il momento giusto — un brindisi, una risata, qualcuno che si alzava per una foto — e, con mano ferma, scambiai il mio bicchiere con quello di sua sorella, seduta al mio fianco.

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Dieci minuti dopo levammo i calici e bevemmo. Quasi subito lei impallidì, portò una mano alla gola, e il brusio della sala si trasformò in panico. Urla, sedie spinte indietro, qualcuno chiamò un’ambulanza. Mio marito diventò color cenere, come se le gambe stessero per cedergli.

Io lo fissai. Nella testa una sola frase batteva come un martello: «Che cosa avevi pianificato per me, amore mio?»

Portarono sua sorella via in barella. Tutti scossi, confusi. Io cercavo di respirare a ritmo, ma tremavo dentro come un vetro sottile. Quando lui uscì a telefonare, lo seguii in silenzio.

«Com’è successo?» sibilò, nervoso. «No, non avrebbe dovuto bere… I bicchieri li ho scambiati io, ne sono certo!»

Il sangue mi si raggelò. Non mi ero sbagliata: il bersaglio ero io. Il resto era un effetto collaterale.

Rientrai, tornai al mio posto come se nulla fosse. Mi imposi di tenere lo sguardo neutro, le mani ferme. Solo due domande mi rimbombavano addosso: perché? e per cosa? Anni insieme. Fiducia. Amore — o ciò che avevo chiamato così.

Più tardi lui si avvicinò.
«Come ti senti?» domandò, forzando un sorriso.
«Bene» risposi, guardandolo dritto. «Tu?»

Esitò; qualcosa gli passò negli occhi, una scintilla che si spense subito. Aveva capito che io avevo capito.

Sapevo anche un’altra cosa: da lì in avanti, niente sarebbe stato più com’era. Ma l’essenziale era salvo: ero viva. E la verità, prima o poi, sarebbe venuta a galla.

La mattina seguente andai in ospedale. Sua sorella era in reparto: pallida, stremata, ma lucida. I medici furono chiari: «Avvelenamento serio. È stata fortunata. Con una dose appena più alta…» Annuii, grata al caso — e a me stessa.

Sulla via di casa presi una decisione: la partita l’avrei giocata io, con le mie regole.

Mi accolse come se non fosse accaduto nulla.
«Come sta?» chiese versando il tè.

Sorrisi senza distogliere lo sguardo.
«Viva. E, pensa, mi sono ricordata che i bicchieri, prima del brindisi, erano messi diversamente.»

Si irrigidì. Le dita gli tremarono.
«Che intendi?»
«Nulla, per ora. Un’osservazione.»

Mi alzai.
«E pensa a cosa dirai alla polizia, nel caso decida di parlarle.»

Quella notte nessuno dei due dormì. In casa calò una guerra fredda: lunghi silenzi, frasi a metà, sguardi che pesavano come pietre.

Io cominciai a raccogliere prove. Messaggi, scontrini di farmacia, registrazioni di chiamate. Avevo tempo, sangue freddo e un nuovo ruolo: non più preda. Cacciatrice.

Passò una settimana. Lui diventò irrequieto. All’improvviso scoprì in me la “moglie perfetta”: docile, d’accordo su tutto, perfino entusiasta della sua proposta di un weekend fuori città “per staccare”. Sorrisi, feci la valigia. E alle sue spalle contattai un investigatore privato.

Gli consegnai tutto: gli scontrini, l’audio di quella telefonata, lo screenshot di un messaggio da un numero sconosciuto in cui mio marito scriveva: «Dopo l’anniversario, è tutto finito.»

Recitai la parte. Cucina, conversazioni leggere, cenni del capo. Finché una sera, accanto al camino, mi versò di nuovo del vino.

«A noi» disse alzando il calice.
«A noi» ripetei… lasciando il bicchiere intatto.

In quel preciso istante bussarono. Lui sobbalzò. Andai ad aprire.

Sulla soglia c’erano un agente e l’investigatore.
«Signor Orlov, è in stato di arresto per tentato omicidio.»

Mi guardò terrorizzato.
«Tu… mi hai incastrato?»
«No» risposi piano, fermandolo con gli occhi. «Ti sei incastrato da solo. Io ho solo smesso di morire.»

Lo portarono via. Io rimasi. Viva. Libera. Più forte.

Due mesi dopo il processo era avviato. Le prove pesavano tutte da una parte. Lui in custodia cautelare, il suo avvocato senza appigli. Sembrava quasi troppo pulito.

Poi una telefonata dal carcere: «Vuole vederti. Dice che parlerà solo con te.»

Ci andai. Dietro il vetro aveva la stessa scintilla.
«Sai» sussurrò, «ti sei sbagliata. Non eri tu il bersaglio.»
«Cosa?»
«Era per lei» sogghignò. «Per mia sorella. Sapeva troppo. Chiedeva troppo.»
«Stai mentendo.»
«Controlla il suo telefono. Poi ne riparliamo.»

Tornai a casa all’alba. Aprii un vecchio tablet di sua sorella. E il pavimento mi mancò sotto i piedi.

C’erano intercettazioni, registrazioni, messaggi a un contatto firmato «M.O.». Uno, in particolare: «Se non se ne va da sola, servirà un incidente. A mio fratello dovrà restare un movente.»

Rilessi infinite volte. Tremavo. Non era la sua trappola. Era la loro partita. Contro di me.

Lei, dimessa dall’ospedale, si rimise a sorridere, a portare torte, a offrirsi di aiutare. Io continuai a recitare — ma stavolta fino in fondo.

Cercai «M.O.»: nomi, numeri, tracce. Non era una persona sola. Era una struttura. Un servizio ombra che “risolve” problemi a pagamento.

Ne venne fuori un disegno contorto: lui voleva liberarsi della sorella; la sorella voleva liberarsi di me; e qualcuno, sopra tutti, muoveva i fili.

Decisi di incontrare «M.O.» sotto falso nome. Appuntamento in un bar di periferia. Mi attendeva un uomo sui cinquanta, abito scuro, voce piatta.
«Ha richiesto una sparizione?»
«No» risposi. «Propongo una collaborazione.»
Mi studiò. «In che termini?»
«Informazioni in cambio di accesso. Io voglio mappare chi ha provato a farmi fuori. Possiamo esserci utili.»

Bevve un sorso. «Cerca vendetta?»
«Cerco il controllo. Quella partita è finita. D’ora in poi decido io.»

Entrai in quel mondo in punta di piedi. Prima osservatrice, poi pedina… e infine giocatrice. Imparai in fretta. Non ero più l’anello debole, ma la variabile imprevista.

«M.O.» capì che conviene avermi alleata. Mi affidò una prova semplice. La risolsi in due giorni, senza sangue, con lucidità glaciale — e mi spaventò quanto fosse stato facile.

Intanto continuavo a interpretare la donna ferita. Il processo avanzava. Sua sorella cominciò a chiamarmi più spesso, come se temesse di perdere il controllo. Non immaginava che ormai sapevo tutto.

Una notte andai da lei senza avvisare.
«So di M.O.» dissi, calma. «E del tuo ordine su di me.»
Sbiancò. «Non è… non è come—»
«È tardi per le scuse. Hai due strade.»
Trattenne il fiato.
«Uno: sparisci. Per sempre. Due: resti, ma lavori per me. Finché te lo dirò.»
«E se rifiuto?»
Mi voltai verso la porta. «Allora scoprirai cosa succede quando, all’improvviso, il bicchiere non è più il tuo.»

Il mattino dopo non c’era più. Qualche giorno e arrivò una voce: «Pare sia partita all’estero.» Nessuno l’ha più vista.

Mi guardai allo specchio e capii: la vecchia me era finita. Ero potere. Un’ombra tra le ombre. Un predatore scampato alla trappola.

Poi, un pomeriggio, trovai una busta senza mittente. Dentro, una mia foto: dormivo sul divano, in casa. Qualcuno era stato lì. Un biglietto con tre parole: «Non sei la prima.»

Tutto vacillò. Compresi che oltre la rete, oltre «M.O.», c’era un livello ancora più alto. Qualcuno che guardava mentre noi ci illudevamo di condurre il gioco.

Provai a rintracciare «M.O.». Sparito. La rete si sbriciolò: contatti che svanivano, telefoni muti. Come se qualcuno stesse cancellando ogni traccia. Rimasi sola. Forse perché servivo ancora.

Da allora sento uno sguardo sulle spalle. Telefonate mute. Riflessi negli specchi che tardano a seguirmi. Non è paranoia: è segnale.

Ho vinto la mia partita, sì. Ma ora sono su una scacchiera più antica, più pericolosa.

Vivo senza nome, senza passato. E aspetto.
Perché un giorno verranno a prendermi.

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O forse sono già qui.

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