«Tu non sai cucinare», sentenziò mia suocera, ignara che fossi lo chef del ristorante più rinomato della città.

— «Marco, passa la salsiera a tua moglie», ordinò Svetlana Anatol’evna con tono di ghiaccio. Le labbra però le tremarono appena. Alzai gli occhi dal piatto: sul bianco lucente del fagiano di porcellana si era seccata una goccia di succo di barbabietola, come una minuscola scena del crimine.

Marco, mio marito, scattò in piedi e allungò il braccio oltre il tavolo per porgermi l’argento. Si muoveva troppo in fretta, nervoso com’era ogni volta che sua madre dettava il ritmo della stanza.

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— Grazie, — mormorai, prendendo la salsiera.

Con il cucchiaino raccolsi un po’ di panna acida. In cima, un rametto d’aneto appassito cercava invano di farla sembrare invitante.

La salsa colava: troppo liquida, punteggiata di grumi di farina non stemperata. Il classico tentativo maldestro di salvare all’ultimo una preparazione.

Annotai mentalmente: nel nostro ristorante, mai e poi mai salse di panna acida come base. Tasso d’insuccesso troppo alto.

— Non ti piace, Anička? — mi scrutò Svetlana Anatol’evna. — Quasi non tocchi nulla.

La carne era asciutta. Il rosmarino, invece di profumare, s’era carbonizzato in aghi amari.

Le patate, al contrario, ancora crude al centro, scricchiolavano sotto i denti.

— È tutto… sostanzioso, — scelsi la parola più innocua e forzai un sorriso. — Oggi non ho molto appetito.

— Ma certo, — riprese. — In quei vostri posti alla moda servono porzioni da bambole. Il tuo stomaco si sarà disabituato alla cucina di casa.

Marco tossì, imbarazzato.

— Mamma, alla mensa del lavoro di Anja si mangia anche bene.

“Mensa.” Mi venne quasi da ridere. Se sapesse quante notti ho speso su ogni voce del menù, a rifinire dessert mentre lui dormiva.

Lei ignorò il commento, fissandomi ma parlando al figlio:

— Tra poco compie gli anni tuo padre. Cinquantacinque. Vorrei tutti qui, una trentina di persone. Un bel tavolo lungo.

Sospese, assaporando l’effetto.

— Marco, ricordi il mio “Napoleon”? E l’aspic di tre carni? Quella sì che è festa!

Marco annuì con entusiasmo da scolaretto. Le spalle gli si distesero.

— Certo, mamma! Il tuo aspic è insuperabile!

Nel piatto spostavo una patata ancora al dente. Sapevo già dove stava andando a parare: ogni ricorrenza famigliare diventava il suo one-woman show.

— Anja, — aggiunse con condiscendenza, — potresti darmi una mano. Qualcosa di semplice.

Lo sguardo mi punse come uno spillo.

— Per esempio un bel tagliere: affetti salumi e formaggi e li sistemi con gusto. Quello lo sai fare, vero?

Sentii il sangue risalirmi piano nelle vene. Calma. Non sono che parole.

La guardai e risposi tranquilla:

— Sì, certo. Un tagliere posso prepararlo.

Il mio tono pacato parve disilluderla. Sperava in uno scatto, una protesta, qualcosa da rigirare contro di me.

Non mollò.

— Benissimo, — posò coltello e forchetta in perfetta simmetria. — Per i piatti seri non posso contare su di te, capisci? Ci vogliono mano ed esperienza. Non quelle ricette pescate su internet.

Marco rimase con la forchetta sospesa a mezz’aria, gli occhi che rimbalzavano tra noi.

Fu lì che sentii una leggerezza nuova, come se cedesse all’improvviso una diga. Le maschere scivolavano giù.

Guardai il suo viso duro e, per la prima volta dopo anni, le sorrisi davvero.

Il piano si compose da solo. E non sarebbe stato un semplice pranzo. Sarebbe stato teatro.

Due giorni prima dell’anniversario, la nostra cucina sembrava un’estensione del mio ristorante. Marco sporse la testa la sera, rimase di sasso.

— Anja, ma… che succede? — indicò la lastra di marmo su cui stavo tessendo una terrina di gamberi tigre e avocado.

Accanto, riposava un pâté di fegatini al brandy con olio al tartufo; in frigo rassodava una galantina di quaglia ai pistacchi.

— È il tagliere, amore, — dissi senza alzare gli occhi. — Come ha chiesto tua madre.

— Questo non è un tagliere! — la voce gli prese un tremito. — Intendeva mortadella e “formaggio russo”! Quando lo vedrà… impazzirà.

Lo fissai.

— Io impazzisco ogni volta che mi si dice che non so cucinare. Facciamo che, per una volta, impazzisca lei.

— Ti prego, Anja, non rovinare la sua festa, — provò. — È il suo giorno. Voleva solo…

— Voleva cosa, Marco? — appoggiai il coltello. — Sminuirmi? Dimostrarti che hai sposato quella sbagliata? Una incapace che non sa neanche nutrire suo marito?

Lui fece un passo indietro. Non ebbe risposta.

Il giorno dell’anniversario arrivammo dai suoceri. Svetlana Anatol’evna volteggiava fra stanze lucidate e profumo costoso; gli ospiti già ridevano e commentavano gli addobbi.

— Anička, eccoti! — mi baciò la guancia. — Hai portato il tagliere? Mettilo in tavola, muoiono di fame.

Entrai in cucina e cominciai a disfare i contenitori. Le mani andavano sole.

Portai tre grandi vassoi d’ardesia.

Sul primo, l’anatra arrosto con prugne e albicocche, rametti di rosmarino freschissimo e gocce di riduzione balsamica.

Sul secondo, la terrina di gamberi e avocado, specchio liscio e lucente.

Sul terzo, un mosaico di pâté e galantina, con confettura di fichi e noci tostate.

Non era cibo soltanto. Era una tesi.

Appena entrai in sala, il brusio si spense. Trentadue sguardi si aggrapparono alle mie mani. Un cugino lontano sussurrò:

— Che meraviglia… Svetlana Anatol’evna, ha fatto lei questa bellezza?

Lei, al centro della sala, voltò lentamente il capo. Il sorriso le si raggelò e poi cadde.

Guardò i vassoi; nei suoi occhi, esattamente ciò che aspettavo: stupore e rabbia mischiati.

— È… di Anja, — riuscì a dire. — Le avevo chiesto un tagliere.

Gli ospiti cominciarono a mormorare, curiosi.

— Anička, dove hai imparato? Sembra lavoro da professionisti!

— Cos’è questo? Posso assaggiare?

Rispondevo serena, raccontando ogni piatto. In un attimo la stanza fu solo di sospiri ammirati. L’aspic e la carne secca svanirono dal discorso collettivo.

Mi raggiunse quando rimasi un secondo sola alla finestra.

— Volevi umiliarmi, vero? — sibilò. Il viso paonazzo, le mani serrate.

La guardai dritta.

— Ho preparato un tagliere, Svetlana Anatol’evna, — dissi piano. — L’ho fatto come so fare.

Stava per ribattere quando la voce allegra di Igor Matveevič, il festeggiato, rimbombò:

— Sveta, vieni! Guarda cosa ha fatto Anja! È arte!

Sedeva al tavolo con un boccone d’anatra sospeso sulla forchetta, gli occhi sinceramente felici. Uomo semplice, fuori dalle trame della moglie, godeva della festa e basta.

— Figlia mia, hai un dono! — mi strizzò l’occhio. — Dove l’hai preso?

Lei digrignò.

— Igor, sono stuzzichini da moda. Bella figura, zero anima. Non come il nostro “Napoleon” di famiglia…

Ma nessuno la sentiva. Un signore distinto, socio di Igor, mi studiò.

— Mi perdoni… lei è forse Anna Petrova? La chef del “Vernissage”? Mia moglie ed io siamo venuti la settimana scorsa. Sublime.

Cadde un silenzio denso. Gli sguardi rimbalzavano su di me, su Marco, su di lei.

Il volto di mio marito si irrigidì. Mi guardava come fosse la prima volta. “Mensa”, pensai, trattenendo un sorriso.

Svetlana Anatol’evna assunse il colore della sua barbabietola. Mi fissava come se l’avessi tradita sul personale.

— La chef? — sussurrò qualcuno. — Del “Vernissage”? Lì si prenota con un mese d’anticipo!

Il brusio ripartì, stavolta denso di stupore. Mi si fecero attorno, chiedendo ricette, segreti, indirizzi.

Mi trovai al centro di un’attenzione che non avevo cercato, ma che ora indossavo come una corazza.

Vidi lei arretrare nell’ombra, accanto a un aspic intatto. Partita chiusa, per KO.

Sulla via del ritorno, Marco tacque fino all’ascensore.

— Perché non me l’hai detto? — chiese quando chiudemmo le portiere. Non c’era accusa, solo smarrimento.

— Mi avresti creduta? — dissi guardando le luci in strada. — Avresti parlato di “vera cucina di casa”.

Non rispose. Fu, in un certo senso, la risposta più sincera.

Aprì lo sportello.

Nei suoi occhi, per la prima volta dopo tanto, non lessi condiscendenza per il mio “hobby”, ma un rispetto nuovo, quasi timoroso.

Salimmo leggeri. In questa piccola guerra non avevo soltanto difeso il mio mestiere.

Avevo reclamato il diritto di essere me stessa. E forse, finalmente, mio marito mi aveva vista davvero.

— Chef, è arrivato il fornitore con asparagi selvatici e morchelle. Vuole controllare? — Arthur, il mio sous-chef, si affacciò nel mio ufficio con deferenza.

Posai i conti e annuii.

— Sì, grazie. Le morchelle in acqua fredda; le punte degli asparagi lasciale, le guardo io.

— Subito, chef!

La porta si chiuse piano. Sorrisi. “Chef”. Dopo tre anni ancora mi scaldava il petto.

Specie qui, tra le mura del mio “Anis”.

Era stato Marco a trovare il locale: una vecchia cantina con volte in mattoni.

Ci aveva messo tutti i risparmi. «È l’investimento più sicuro che possa fare. Investo in te», aveva detto. Valsero più di qualsiasi cifra.

Sedeva di fronte a me, a fare la posta. Alzò lo sguardo.

— Tutto bene?

— Benissimo. Sono arrivate le morchelle. Mettiamo uno speciale in carta.

— Ottimo. Ah, ha chiamato tua madre.

Mi irrigidii appena. Non più tempesta, solo la cautela che si ha quando cambia il vento.

— Urgente?

— Chiede se domenica passiamo. Tuo padre compie cinquantotto anni.

Sorrisi di taglio.

— Cucina lei?

Marco inarcò un angolo della bocca.

— No. Ha ordinato il catering. Dal “Vernissage”.

Ci guardammo un istante e scoppiammo a ridere. Forte. Quella risata di chi è passato attraverso l’assurdo ed è rimasto in piedi.

Svetlana Anatol’evna non tentò più la gara. Quell’anniversario era stato il suo Waterloo. Non mi perdonò, no.

Però imparò a rispettarmi. Un rispetto freddo, da sconfitta. Meglio, comunque, delle carezze finte.

Di cucina non parlò più. Tabù di famiglia.

Al suo posto, con orgoglio trattenuto, raccontava: «Mia nuora è Anna Petrova, la chef con un ristorante tutto suo, molto in voga».

Il suo nuovo modo di prendere posto dentro il mio successo. Io non commentai.

— Allora, andiamo? — chiese Marco.

Lo guardai: sereno, solido. Non più il ragazzo spaventato dall’idea di deludere la madre. Al mio fianco c’era un complice. Il mio uomo.

— Andiamo, — dissi leggera. — Ma prima passiamo in negozio. Devo prendere un regalo.

— Fatto. Per tuo padre ho scelto una scacchiera intagliata.

— Perfetto. E io comprerò una salsiera. D’argento. Credo che tua madre l’apprezzerà.

Marco rise, complice, e mi baciò sulla testa.

— Sei la migliore, Anja.

Uscii dall’ufficio e mi immersi nel brusio della cucina. Odore di erbe, brodo, olio caldo. Il mio elemento. La mia vita.

Quella cena da mia suocera—la carne rinsecchita, il tono sprezzante—oggi mi pare un fotogramma sbiadito.

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Eppure le devo qualcosa. A volte, per spiccare il volo, serve una spinta. Anche quando arriva come un calcio dato convinta che tu cada.

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