— Che ti sei messa addosso? — ringhiò Gleb con un’espressione di disgusto, squadrandomi dall’alto in basso. — Sembri una zitella del mercato. Renditi conto: ormai apparteniamo a un altro livello.
Ogni parola le arrivò come una frustata. “Un altro livello”… Irina fissò l’uomo di fronte a sé e non lo riconobbe. Dov’era finito quel ragazzo timido e gentile a cui aveva detto “sì” vent’anni prima? Quello con cui avevano iniziato dal niente, stipati in una stanza in affitto, su un letto a castello cigolante, a mangiare noodles istantanei direttamente dalle confezioni, sognando insieme un domani migliore?
Quel domani, in fondo, l’avevano costruito. La loro impresa edile, “Monolit”, era diventata una delle più solide e redditizie della città. Ma quel “nostra” ormai esisteva solo nella memoria di Irina. Gleb l’aveva cancellata dal quadro come una nota a margine: si comportava come se tutto fosse opera esclusiva sua, come se non esistessero le sue notti insonni, la sua competenza, il suo sangue e il suo sudore.
Irina ricordava bene: le ore passate a rifare i conti mentre lui dormiva, ogni cifra verificata per non far deragliare l’azienda. Era stata lei a inventare il nome “Monolit”, simbolo di stabilità, un pilastro su cui poggiare. Per Gleb, però, tutto questo era ormai storia remota. A lei restava addosso l’etichetta di zavorra.
— Ira, non impicciarti: sono cose da uomini — la zittiva ogni volta che provava a leggere un nuovo contratto.
— Il tuo posto è a casa. Pensa al focolare — aggiungeva, gelido, quando lei chiedeva conto delle spese.
Poi era arrivata Diana. Giovane, fredda, precisa come una lama; unghie affilate, occhi che calcolavano tutto. Gleb non la nascondeva: la esibiva come un trofeo, una Mercedes fiammante da mostrare in società. Non era solo tradimento: era umiliazione deliberata.
Irina si sentiva un oggetto vecchio messo da parte. La sua vita era stata rimpiazzata da una versione più giovane, più lucida, più scintillante. Capì che, per lui, non era più moglie, né socia, né amore: soltanto un intralcio sulla strada della sua nuova “rispettabilità”.
Il colpo arrivò in un giovedì di pioggia. Gleb era partito per l’ennesima “trasferta importante” quando qualcuno suonò al campanello, insistente.
Sulla soglia c’era Diana: capelli in ordine impeccabile, cappotto di cashmere, trucco perfetto, un sorriso sprezzante.
— Posso entrare? O vogliamo farci vedere dai vicini, come parenti poveri? — mormorò, oltrepassando la porta e lasciandosi cadere sul divano come se fosse casa sua. — Ho un messaggio da parte di Gleb. Vuole il divorzio, rapido e senza drammi. E, bada, è pronto a essere perfino generoso.
Lasciò cadere sul tavolino una cartellina colma di documenti.
— La proposta è semplice: per evitare di spezzare l’azienda — a cui, diciamolo, tu non hai contribuito — ti cede questo appartamento. Tutto tuo. In cambio rinunci a qualsiasi diritto su “Monolit”. E c’è anche una somma di cortesia.
— Hai una settimana per pensarci. Ringrazialo: tu resterai con un tetto, lui con la sua impresa.
Quelle frasi furono lame di ghiaccio. Generosità? Stava offrendo la sua stessa casa, pagata con anni di lavoro silenzioso, in cambio della rinuncia a ciò a cui aveva dedicato la vita. Il dolore ribollì, feroce. Poi, tra la rabbia e lo shock, in Irina nacque una calma tagliente.
— Digli… — pronunciò a denti stretti, con voce d’acciaio — che valuterò.
Appena la porta si richiuse dietro Diana, Irina corse nello studio. In fondo a un vecchio armadietto metallico, sepolto sotto pratiche e memo, c’era la loro vera storia. Le mani le tremavano mentre rovistava tra le cartelle.
Ricordò i primi anni, quando l’impresa era solo un’idea fragile. Lei, da giurista, aveva insistito perché tutto fosse in ordine.
— Ira, ma che perdi tempo con ‘ste carte? — rideva allora Gleb. — Qui bisogna lavorare, non ingolfare gli uffici!
Aveva insistito. E ora, in fondo alla pila, eccolo: il certificato di registrazione del marchio. “Monolit”, logo e brand. L’unico documento che attribuiva diritti esclusivi a quel nome.
Se lo strinse al petto come un talismano. Non era più soltanto un foglio: era uno scudo. E, all’occorrenza, un’arma. Il furore si raffreddò in lucidità. Sulle labbra le nacque un sorriso sottile, mentre il piano prendeva forma.
Sette giorni dopo, nello studio notarile, Gleb e Diana sedevano affiancati, convinti di aver già vinto. L’avvocato di Irina, fin lì silenzioso, schiarì la voce e posò un’ulteriore carta sul tavolo: quel certificato ingiallito.
— Signori — disse, glaciale — il marchio “Monolit” è proprietà intellettuale esclusiva della mia assistita. Da questo momento ne vieta l’uso.
Gleb impallidì. Diana si irrigidì.
— Ma… che state dicendo? — balbettò lui.
— Niente errori — replicò l’avvocato. — D’ora in avanti la tua società non potrà chiamarsi “Monolit”. Ti restano uffici e betoniere; nome, reputazione e contratti rimangono alla signora Sómova. E tu, Gleb, li hai scambiati per un appartamento. Con la tua firma.
Il silenzio fu pesante come piombo. Diana ritirò la mano dalla sua come fosse bruciata.
— È vero, Gleb? — sibilò.
— Aspetta… Ira… — annaspò lui. — Possiamo trattare! Ti compro il marchio!
Irina si alzò con calma.
— Questo nome non è in vendita, Gleb — disse piano. — Da oggi è la base della mia nuova società. Tu, invece, hai barattato tutto per quattro mura. La proprietà è tua: tre righe e una firma. A te la scelta.
Sei mesi dopo, guidata da Irina Sómova, “Monolit” firmava i contratti più importanti della città. Lei non si limitò a restare in piedi: rinacque, riprendendosi l’azienda e se stessa. La società di Gleb, ribattezzata in fretta “Stroy-Garant”, si sbriciolò in meno di un anno: senza nome, senza reputazione, franò nei debiti e fallì. Diana lo lasciò un mese dopo l’atto notarile: il principe si era rivelato un manichino.
Irina Sómova non fu più soltanto una moglie. Tornò a essere una donna d’affari. E non accettò mai più il ruolo di vittima.
