Fuori infuriava la tempesta. Non una semplice nevicata: era un inverno impazzito, una fine del mondo in miniatura. Il vento urlava come una bestia, graffiava l’asfalto, si schiantava contro i vetri con la furia di chi pretende di entrare. La neve, trascinata in vortici ciechi, cancellava i contorni delle cose e trasformava la notte in un deserto bianco, dove anche il coraggio finisce per smarrire la strada.
Eppure, proprio allora, oltre quel sipario di gelo, Marina Sazonova la vide.
Sul ciglio della strada, quasi inghiottita dai cumuli, c’era una vecchietta. Sembrava una bambola abbandonata, coperta di brina e silenzio. Barcollava, un passo sì e uno no, come se bastasse un soffio più forte per strapparla via e farla sparire nel nulla. Il viso era un intreccio di rughe, ma gli occhi… gli occhi erano profondi, strani, troppo vigili per appartenere a qualcuno che stesse solo lottando per non congelare.
Marina inchiodò.
Un colpo secco di freno, il cuore che le si serrò in gola. Per un istante pensò: Se tiro dritto, tra dieci minuti non ci sarà più nessuno. Solo una sagoma di ghiaccio fra la neve. Un dolore che nessuno ricorderà.
Scese dall’auto avvolgendosi nella sciarpa di pelliccia, la pelle morsa dall’aria come da aghi. Si avvicinò con passi incerti, tremando non soltanto per il freddo: era un tremore più antico, il tipo di brivido che arriva quando qualcosa dentro ti sussurra che stai oltrepassando un confine.
— Signora… mi sente? — chiese, ma la sua voce si disperse nel vento.
La vecchia non oppose resistenza quando Marina le infilò un braccio sotto il gomito. Le dita erano gelide, eppure in quella presa c’era una forza inattesa, quasi magnetica, come se non fosse Marina a guidare… ma a essere guidata.
La villa li accolse in un silenzio troppo perfetto.
Un enorme palazzo neoclassico, colonne alte, camini, stucchi e corridoi che sembravano respirare ombre. Marina fece sedere l’ospite accanto al fuoco, versò tè alla menta con le proprie mani, ordinò alla domestica una coperta spessa. Un gesto dopo l’altro, impeccabili. Educati. Normali.
Eppure l’aria sapeva di stonato, come una nota sbagliata in un brano eseguito benissimo.
Sul tavolo, tra cristalli e libri antichi, spiccava una busta bianca. Semplice. Quasi anonima. E proprio per questo, minacciosa come un coltello lasciato apposta sotto una luce.
Marina la riconobbe prima ancora di avvicinarsi: la grafia.
Quella calligrafia.
La sua suocera.
Elena Sazonova.
Mort… no. Elena era morta da vent’anni. Venti anni, eppure lì c’era scritto, con una confidenza domestica che le gelò il sangue:
“Cara, sono passata. Non ti ho trovata. Ho lasciato un biglietto. Gleb sa. Ne parleremo domani.”
Il tè, tra le mani di Marina, tremò nel bicchiere.
Gleb sa.
La frase si incastrò nella sua mente come un chiodo.
Gleb — suo marito — era via da una settimana per lavoro. Un uomo che la stampa chiamava “oligarca”, e che lei, nel privato, conosceva come un abisso ben vestito: sguardo freddo, parole misurate, carezze che sembravano sempre avere un prezzo. E da tempo, in famiglia, si mormorava.
Marina non dà un erede.
Gleb è deluso.
La prossima sarà più adatta.
E poi c’erano quelle coincidenze che nessuno pronunciava ad alta voce: mogli precedenti, sparite troppo in fretta. Malattie improvvise. Incidenti. Parto finito male. E lui, sempre lui, con un lutto breve e un nuovo inizio sorprendentemente rapido.
Dalla sala arrivò un colpo di tosse.
Profondo. Ruvido. Come se provenisse da un punto dove l’aria non dovrebbe più passare.
Marina si voltò.
La vecchietta era in piedi davanti alla mensola delle fotografie di famiglia. Sfiorava le cornici con lentezza, come se riconoscesse ogni volto. Non guardava come farebbe un’ospite. Guardava come chi è tornato a casa.
— Vuole dello zucchero nel tè? — chiese Marina, e la sua voce si spezzò sul finale.
La vecchia si girò piano, con un sorriso che sembrava gentile… ma senza calore negli occhi.
— Grazie, figliola. Ma ora devo andare. Mi aspettano.
Poi scivolò verso l’ingresso. Marina fece appena in tempo a seguirla con lo sguardo: la porta si richiuse, e il corridoio tornò vuoto, come se non ci fosse mai stata nessuna.
Sul divano rimase solo un fazzoletto.
Bianco, comune, quasi insignificante.
Marina lo prese tra le dita. E il cuore le si fermò.
Nell’angolo, ricamate con pazienza, c’erano due iniziali: E.S.
Come Elena Sazonova.
Il telefono vibrò.
Chiamata di Gleb.
Sotto il suo nome, un messaggio comparso un attimo prima che Marina rispondesse:
“Domani si decide tutto. La mamma ha ragione.”
Marina impallidì.
La mamma? Quale mamma?
Fuori, la bufera si spense all’improvviso, come se qualcuno avesse chiuso una porta sul mondo. Il silenzio arrivò di colpo, pesante, innaturale.
E in quel silenzio si udì un suono sottile, gelido: il cigolio di una sedia a dondolo.
In salotto.
Marina si voltò.
La sedia oscillava.
Vuota.
Ma si muoveva come se qualcuno si fosse appena alzato.
Il telefono le scivolò quasi dalle mani. Lo schermo sfarfallò… e si spense. Nello stesso istante, tutte le luci della villa si spensero con lui.
Buio totale.
Solo gli ultimi tizzoni nel camino disegnavano ombre contorte sulle pareti, come figure che danzavano senza musica.
Al piano di sopra, una porta scricchiolò.
Lenta.
Voluta.
— Chi… chi c’è? — bisbigliò Marina, e la domanda le uscì più piccola di lei.
Nessuna risposta.
Solo un sussurro, quasi portato dai muri, o dal vento che ormai non c’era più:
“Non temere… Sei tu che mi hai scelta…”
Marina cercò l’interruttore, inciampò e cadde in ginocchio. Le dita toccarono stoffa. Un fazzoletto. Poi un altro. E un altro ancora.
Erano sparsi sul pavimento come briciole, come un sentiero.
Un invito.
La conducevano al corridoio dove pendeva il ritratto di Elena: severa, elegante, sguardo tagliente come un giudizio.
Per un istante, lo schermo del telefono tornò a illuminarsi, come un lampo.
Gli occhi del ritratto la fissavano.
E nell’angolo della tela c’era una macchia scura, umida, che non ricordava di aver visto prima.
Vernice?
O qualcosa che colava… come sangue.
Un colpo sordo alla porta d’ingresso fece vibrare la casa.
BUM.
Marina urlò.
— Marina! Apri! — la voce di Gleb, precisa, familiare.
Eppure…
Non doveva essere lì.
Lei corse verso la porta, già con la mano sulla maniglia… e si fermò.
Perché dietro quella voce, appena più indietro, c’era un altro suono.
Una risatina sottile.
Senile.
Nota.
— Figliola… — gracchiò la voce che aveva sentito in salotto. — Sei stata tu a farmi entrare…
Marina si ritrasse come colpita.
Il telefono lampeggiò di nuovo. Nuovo messaggio. Ma il mittente… impossibile.
“Non fidarti di lui. Sto arrivando. Fiammiferi nell’armadio. Brucia la lettera.”
Sotto, una data.
Vent’anni prima.
Il giorno in cui Elena Sazonova era stata trovata morta in quella casa.
Versione ufficiale: infarto.
Versione sussurrata: stava cercando di fermare suo figlio.
“Brucia la lettera.”
Marina si lanciò verso il tavolo. Strappò la busta con mani che non le appartenevano più. Dentro, una pagina ingiallita, la grafia tremante di chi scrive sapendo di essere in pericolo:
“Marina, se leggi questo, significa che Gleb ha deciso di ripetere lo stesso copione. Dice che gli serve una nuova moglie per avere un erede. È una menzogna. Le sue mogli… non sono mai morte per caso. Controlla la cassaforte nel suo studio: ci sono le polizze e i documenti. Il mio diario è sotto l’asse vicino alla finestra. Perdona il silenzio. Solo io posso salvarti… dalla tomba.”
Il pavimento scricchiolò alle sue spalle.
Marina si girò.
Gleb era lì.
Non nella voce dietro la porta.
Lì, dentro casa.
A un passo da lei.
— L’hai trovata? — disse con calma, come se stesse chiedendo dove fosse il vino.
Marina indietreggiò, ma non fece in tempo a gridare. Una mano le afferrò i capelli e le sbatté il viso sul tavolo. Il dolore esplose, e un sapore di ferro le riempì la bocca.
— Avevo detto a mia madre di non intromettersi — sibilò lui, e nella sua voce c’era qualcosa di stanco, disgustato. — Tu sei solo un altro tentativo.
Marina vide la siringa tra le sue dita.
Un lampo di panico le attraversò lo sguardo.
E poi…
Un rumore nel corridoio. Come legno che si spezza.
La porta d’ingresso si spalancò con una violenza tale che dalle pareti caddero cornici e il vetro tintinnò come un grido.
Sulla soglia apparve una donna.
In un abito blu.
Lo stesso abito che Marina aveva visto in vecchie foto del funerale.
Elena Sazonova.
Pallida, composta, terribile.
— Tu… non puoi… — balbettò Gleb, e per la prima volta la paura gli deformò il volto.
Elena avanzò. Le sue dita, chiare come marmo, si conficcarono nelle sue spalle con una presa che non sembrava umana.
— Sono venuta da ognuna — disse, con voce che pareva uscire da un luogo senza tempo. — E tu non hai mai imparato ad avere paura.
Marina, mentre il buio le si chiudeva addosso, udì l’ultima frase come da lontano, come un dono mormorato sopra una ferita:
— Grazie per avermi raccolta nella tormenta… Ora sei libera.
Epilogo — un anno dopo
Mattino grigio, freddo. Marina, in cappotto nero, stava davanti a una tomba recente. Sulla pietra, un nome:
Elena Sazonova.
Accanto, un mazzo di gigli bianchi. E una busta, piegata con cura.
— Ho mantenuto la promessa — sussurrò. — Le assicurazioni sono state riassegnate. Il fondo per aiutare le donne è attivo. Gleb non ha lasciato eredi. Ma lei… lei ha lasciato me.
Un soffio di vento le sfiorò la spalla, caldo come una mano invisibile.
Marina fece per andare via, poi si voltò un’ultima volta.
Sulla pietra, dove prima non c’era nulla, comparivano due parole nuove, nette, come incise da un pensiero:
MIA CARA.
E nella villa, ormai vuota, sulla mensola del camino, ogni sera c’era una tazza di tè appena versato.
Nel caso in cui, nella tormenta, tornasse a bussare ancora una vecchietta…
Non per chiedere di entrare.
Ma per essere ricordata.