«Ad André non è rimasto che il gatto della nonna… e da un giorno all’altro si è ritrovato pieno di soldi.»

L’appartamento di nonna, un tempo nido caldo e riconoscibile, era diventato una specie di bazar. Rimbalzavano voci di parenti che non vedevo da anni, mani che frugavano nei cassetti, occhi che misuravano credenze e suppellettili. Nessuno però parlava di lei. Al nono giorno di lutto si erano radunati tutti — dai più vicini ai più lontani — e invece di condividere ricordi, discutevano su come spartirsi le cose.

— Il vaso blu spetta a me, è della linea della mamma — proclamò zia Vera, avvolgendolo con cura nella carta di giornale.
— E il servizio di piatti? Se non vi spiace, me lo prendo io — aggiunse zio Kolia, infilando tazze e piattini in una scatola come un addetto al trasloco.

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Nessuno chiedeva cosa ne pensasse André. Era lì, appoggiato al muro, quasi trasparente: il nipote senza un lavoro stabile, che campava di lavoretti. Chi mai gli avrebbe concesso qualcosa di “serio”?

Nonna però non l’aveva mai trattato da perdente. La domenica lo chiamava sempre, senza saltare una volta, e gli diceva con una fiducia che scaldava: «La tua strada la troverai, tesoro, ne sono sicura». Adesso quella voce non c’era più.

André osservava i parenti contendersi mobili e stoviglie come in una fiera dell’usato, quando da sotto una poltrona spuntò, timido, un gatto rossiccio. Camminava leggero, sperando di non essere notato. Invece lo videro subito.

— Ma guarda un po’ — sbuffò la cugina Irka, con quell’aria di superiorità che le riusciva fin troppo bene.
— È Sam — mormorò André. — Nonna l’aveva raccolto dalla strada quando era un batuffolo.
— Ah, il famoso gatto delle foto! — ricordò zia Vera. — Carino, sì, ma bisogna pur sistemarlo da qualche parte.
— Lo portiamo al rifugio e finita lì — propose Irka. — L’appartamento si vende.

— Se vi va… lo prendo io — disse André.

Caliò un silenzio pesante. Lo fissarono come se avesse detto una follia. Dopotutto si era tirato fuori da ogni oggetto “monetizzabile”.

— Non fare lo spiritoso — tagliò corto Irka. — Vivi già in una stanza in affitto. Che te ne fai di un gatto?

— Me la caverò — rispose lui, incontrando lo sguardo ambrato di Sam.

Il micio gli si avvicinò, sedette vicino, la coda raccolta attorno alle zampe. Quegli occhi lo guardavano come se già sapessero qualcosa che lui ignorava.

— Ti rendi conto di cosa comporta? Cibo, lettiera, veterinario… — continuò Irka, come a chiudere la questione.
— Lo tengo. È l’unica cosa che voglio — ribadì André.

Zio Kolia scrollò le spalle:
— Prendilo pure. È solo un gatto, non diamanti.

— Almeno è educato? Non fa disastri? — si informò zia Vera.
— Va alla finestra — abbozzò André con un sorriso. — Lui e nonna avevano un patto. Ce la farò, non preoccupatevi.

— Ottimo — concluse Irka. — Ci semplifichi la vita.

André si chinò verso il micio.
— Allora, Sam… si va?

La coda di Sam fece un piccolo arco. Così André si ritrovò erede dell’unico lascito inatteso: un compagno a quattro zampe e una scintilla di speranza negli occhi del gatto.

Uscirono insieme. Nella sua stanza in affitto, Sam individuò subito un armadio e ci salì sopra, da dove restò a osservare il mondo per due giorni. Ogni sera André gli parlava piano, giusto per non affogare nel silenzio.

— Lo so, amico. È stretta per tutti e due. E a me manca nonna.

La terza notte, Sam scese, si accovacciò sul petto di André e accese un motore di fusa.

— Ehi, piccolo — sussurrò lui, accarezzandogli la testa.

Quel ronzio era la cosa più consolante che André avesse sentito da settimane: sembrava dirgli che, in qualche modo, le cose avrebbero preso la piega giusta.

Il lavoro però non c’era. L’ultimo incarico era finito da poco e i soldi bastavano a malapena per l’affitto. Ogni giorno André tornava dai colloqui con le mani vuote. L’unico ad accoglierlo con entusiasmo era Sam. Un entusiasmo, a dire il vero, spesso turbolento: una tazza in frantumi, una pianta rovesciata, gli armadi trasformati in piste per sprint felini.

— Che combini, eh? — sospirava André, raccogliendo cocci.

Un pomeriggio, esasperato, appallottolò un foglio e lo lanciò. Sam scattò, lo acchiappò e glielo riportò. Poi lo fissò come per dire: «Ancora».

— Ti annoi, ti capisco.

I giochi per gatti costavano troppo. André iniziò a costruirli da sé: strisce di vecchie magliette, cartone, tappi, corsie in feltro. Le idee non mancavano e Sam le collaudava tutte con zelo.

— Ehi, fanne uno per il mio Barsik — gli chiese il vicino, Vassia. — Mi ha già devastato la carta da parati.

Fu il primo ordine. Poi ne arrivò un altro. Nel giro di una settimana il telefono non smetteva di vibrare: passaparola. André aprì una pagina: “I giocattoli di Sam”. Il micio divenne il volto del progetto. Ogni creazione aveva la sua foto, una storiella, un test “approvato da Sam”. Crescevano i follower, e con loro gli ordini.

— Te ne rendi conto? — rideva André, guardandolo inseguire l’ultima invenzione. — Siamo una squadra.

Sam strizzava gli occhi, felice, come se avesse sempre saputo dove stavano andando.

Per la prima volta dopo mesi André si addormentava non con la paura del domani, ma con l’euforia delle idee. E al mattino non pesava alzarsi presto: c’era un mondo da costruire.

Sam non lo mollava più. Dormiva ai suoi piedi, faceva da sveglia, e collaudava ogni prototipo con troppa passione, costringendo André ad aggiustare qui e là.

— Senza di te questa cosa non sarebbe mai esistita — gli mormorava, carezzandolo. — Lo sai, vero?

Le fusa di Sam erano un sì che non aveva bisogno di parole.

A febbraio l’hobby era quasi un’azienda. Gli ordini aumentavano a tal punto che André dormiva sei ore scarse e comunque arrancava per stare dietro alle richieste.

— Mi tocca mettere in pausa — sbuffò una sera, mentre Sam, sul davanzale, guardava la neve cadere come ipnotizzato.

Poi successe l’imprevisto. La vicina di Vassia, una blogger fissata con i gatti, pubblicò un post: raccontava del suo sphynx iperattivo che, grazie ai giochi di André, aveva smesso di distruggere il divano. Allegò foto, link e una recensione entusiasta.

La sera stessa i follower raddoppiarono.

Il giorno dopo il telefono impazzì. Non erano solo ordini: erano “grazie”.

— Il mio Tichka non scala più l’armadio!
— Murzik è finalmente più tranquillo, complimenti!
— Dopo quattro anni si lascia coccolare: merito vostro!

André leggeva e sorrideva. Per la prima volta sentiva che il suo lavoro migliorava davvero la vita di qualcuno.

Una mattina bussarono. Un corriere, un pacco enorme.

— Lei è André Viktorovič? Firma qui.
— Ma io non ho ordinato nulla…
— Allora qualcuno l’ha fatto per lei.

Dentro c’erano corde, pelliccia sintetica, strumenti, materiali — e un biglietto: «Grazie per aver salvato il nostro Tichka. Dal forum “Affari a pelo”. Continua così!»

André restò senza parole. Nessuno, prima, gli aveva mai inviato qualcosa solo per sostenerlo.

— Hai visto, Sam? — sussurrò stringendo il micio. — È tutto vero. Servo a qualcosa.

Sam rispose con fusa profondissime: «Te l’avevo detto».

Quel giorno André prese coraggio e affittò un piccolo laboratorio, per liberare la stanza dagli attrezzi. L’affitto era alto, ma ormai ce la faceva.

— Di giorno lavorerò lì — promise al gatto. — La sera sarà tutta nostra.
Sam lo ascoltava come un socio, la coda che oscillava piano.

Al primo giorno nel laboratorio, André allineò gli attrezzi, appese le foto di Sam, distese gli schizzi. Stava ripassando mentalmente le priorità quando la porta si aprì. Entrò un uomo con un soprabito elegante.

— Lei è André, quello dei “Giocattoli di Sam”?
— Sì…
— Piacere, Arkadi. Dirigo la catena “Amico Peloso”. Le va di parlare di una collaborazione?

Parlarono per due ore. Arkadi propose una linea “I giocattoli di Sam” nei 28 negozi della catena: compenso fisso e percentuale sulle vendite. André disse che ci avrebbe pensato. Dentro, però, aveva già deciso.

Rientrò a casa raggiante.
— Sam! Non ci crederai!

Silenzio.

Sam non arrivò a salutarlo. Un brivido.

— Sam?

Cercò ovunque: sotto il letto, dietro l’armadio, in bagno. Nulla. Poi vide la griglia dell’aerazione socchiusa.

— No…

Scese in cortile, chiese ai vicini, guardò sotto le auto, nel seminterrato, chiamando a voce rotta.

Niente.

Tornò su, si lasciò cadere a terra. Le mani tremavano mentre apriva il telefono per scrivere un appello, quando sentì un leggero raschiare alla porta. Aprì.

Sam era lì, impolverato, vigile come sempre, sullo zerbino.

— Sam! — gridò André, stringendolo forte. — Stavo impazzendo!

Il micio si strofinò contro di lui, come se niente fosse.

Il telefono squillò. Arkadi.
— Accetto — disse André. — Domani alle tre.

Tre mesi dopo, sugli scaffali di “Amico Peloso” comparvero le scatole col logo e il muso del gatto rossiccio. Alla presentazione, Sam sfilava tra gli stand con l’aria da ispettore qualità. Ben presto invitarono André in TV. Sam, impassibile, si faceva coccolare e persino fotografare: una star nata.

Il contratto permise un trasloco. Una casa più grande, un laboratorio vero. Sam ebbe mensole, piste, scalette e un “albero” tutto suo. Dalla libreria, tra i libri di nonna, spuntava una sua foto: teneva in braccio un gattino rossiccio che sembrava proprio lui.

— Le somigli, sai? — mormorò André.

Sam strizzò gli occhi, come per dire: «Era scritto».

Oggi André non crea più solo per gatti: realizza giochi e percorsi per cani, uccelli e piccoli roditori, su misura, con la stessa cura di quando lavorava nel suo angolo di stanza. Sam sonnecchia sul davanzale, un quadrato di sole che gli scalda il dorso.

— Sei il mio miracolo — dice André a bassa voce. — Il dono più bello che potessi ricevere.

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Il gatto si raggomitola. Anche i maghi, ogni tanto, hanno diritto al riposo.

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