«Orfana e incinta, è stata lasciata dal fidanzato e, per tirare avanti, ha compiuto una scelta disperata.»

Larisa non si era mai pensata fragile. Anzi: per molti era l’emblema della lucidità, della logica fredda, di una volontà temprata. Cresciuta tra le pareti di un orfanotrofio, aveva interiorizzato una sola legge, inflessibile: puoi contare solo su te stessa. Nessuno verrà a salvarti. Nessuno accorrerà. In questo mondo devi essere solida e calcolatrice come uno scacchista che vede dieci mosse avanti. Così Larisa si era costruita la vita pezzo dopo pezzo, come un architetto: seguendo un progetto preciso al millimetro. Niente cedimenti, niente slanci, niente illusioni sciocche.

Prima l’istituto pedagogico. Poi un impiego modesto ma sicuro: maestra alla primaria. Un appartamento tutto suo — piccolo, ma di proprietà. E infine il matrimonio. Non per passione improvvisa o capriccio, ma per ragione: con un uomo affidabile, concreto, con cui creare ciò che non aveva mai avuto — una famiglia vera. Quella “cellula della società” letta sui manuali, mai vissuta sulla pelle.

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Guardava con disprezzo chi sceglieva la leggerezza: ragazzine che correvano dietro al primo che passava, incinte a sedici anni, a frantumarsi l’esistenza in un attimo di debolezza. Lei era diversa. Più intelligente. Più forte. Lei non sarebbe caduta.

Poi, nel suo mondo così meticolosamente allineato, entrò qualcuno capace di spazzare via ogni piano.

Kolia.

Alto, con occhi di un azzurro di mezzogiorno — luminosi, taglienti, irresistibili. Lavorava in un’autofficina vicino al suo dormitorio, rideva forte, portava cioccolate, la invitava anche quando era al verde. Guidava una vecchia “nove” tirata a lucido e la conduceva in giro per le periferie, alzando la musica, raccontando storie di imprese e bravate. Aveva un’aria libera, generosa, forte. Dietro le sue spalle sembrava possibile nascondersi dal mondo.

E Larisa, sempre trattenuta e vigile, per la prima volta si lasciò andare. Si concesse di sentire. Il vortice la sollevò e tutto ciò che aveva impastato in anni — principi d’acciaio, calcoli freddi, mappe del futuro — crollò come un castello di carte al primo soffio. La mente, proprio come temeva, si spense. E non si accorse quando superò il confine.

Quando due linee sul test confermarono il suo timore più grande, il cuore si strinse in un gelo affilato. Eppure, sotto quel gelo, ardeva una piccola brace di speranza. Andò da Kolia con le mani che tremavano e il battito in gola. Già vedeva la scena: lui l’avrebbe stretta, avrebbe promesso che ce l’avrebbero fatta, che si sarebbero sposati, che quello era l’inizio di qualcosa di grande.

La realtà la colpì con una forza che le tolse l’aria.

Kolia l’ascoltò e si mise a ridere. Non fragorosamente: un suono secco, freddo, con un sorrisetto di disgusto.

— Dici sul serio? — si appoggiò alla sedia. — Larisa, su. Io non ho fatto domanda per diventare padre. Ho già i miei guai. Un figlio non mi serve. E tu, con un “peso” del genere… neanche.

Ogni parola una frustata. Parlava come di una giornata piovosa, come se lei fosse solo un inciampo nella sua vita leggera. Negli occhi di lui non c’erano paura né rimorso. Non vedeva in lei la donna amata, né un bambino, né un futuro: solo un intralcio.

In un istante, il mondo di Larisa — che per un attimo si era colorato di caldo — tornò grigio. Freddo. Vuoto. Camminò sotto la pioggia senza sentirla. Le lacrime scivolavano, ma dentro non c’era dolore: soltanto vuoto. Il progetto era saltato. Il domani cancellato. Sola, tradita, senza vie di fuga. Davanti a sé — silenzio, dolore e un aborto fissato per l’indomani.

Ma il destino, a quanto pare, non aveva alcuna intenzione di cedere.

Quella sera, stesa sul letto del dormitorio, circondata da fazzoletti appallottolati e con lo sguardo fisso al soffitto, il telefono cominciò a squillare. Ostinato, come se “sapesse” di non dover essere ignorato.

Alzò la cornetta. Una voce maschile, asciutta e formale, si presentò: un notaio.

— Larisa Andreevna, la riguarda un’eredità disposta da sua zia, Nina Vasil’evna Kravtsova.

— Quale zia? — sussurrò. — Non ho zie. Non ho nessuno.

— Nondimeno — proseguì la voce imperturbabile — deve presentarsi all’apertura del testamento. È urgente.

Il giorno dopo, in uno studio odoroso di carta antica, cera e tempo, Larisa ascoltò qualcosa che per la seconda volta in una settimana le rovesciò la vita — stavolta verso la luce.

Il notaio, aggiustandosi gli occhiali, lesse il testamento di Nina Vasil’evna Kravtsova. Un nome che Larisa sentiva per la prima volta. A lei venivano lasciati: un appartamento in città, una grande casa di campagna con terreno e una somma consistente in banca.

Trattenne il respiro. C’era però una condizione, rigorosa e misteriosa: avrebbe ottenuto tutto solo se avesse abitato per un anno esatto nella casa di campagna… insieme a un uomo di nome Semion Igorevič Volkov, al quale, per lo stesso testamento, andavano un garage e un’auto vecchia.

— Chi è questa donna? — domandò Larisa, tremando. — E chi sarebbe Semion?

Il notaio sospirò, posando i fogli.

— Nina Vasil’evna… non era solo sua zia, Larisa Andreevna. Era sua nonna.

Il pavimento le parve mancare sotto i piedi.

La sua storia non era semplicemente “abbandonata all’ospedale”. Sua madre, figlia di Nina, l’aveva avuta da giovanissima. Il padre di Larisa — un uomo con precedenti — aveva cominciato a ricattare la nonna, pretendendo denaro e minacciando di portarle via la bambina. Per salvarla, Nina si mise d’accordo con la figlia: inscenarono un rifiuto e affidarono la piccola all’orfanotrofio, sperando di riprenderla quando la tempesta fosse passata.

Quel “più tardi” non arrivò mai. La nonna fu minacciata, le impedirono di avvicinarsi all’istituto. Poi le tracce di Larisa si persero nel sistema. Nina la cercò per anni, e quando finalmente la trovò era già malata e senza forza. Quanto a Semion, era il figlio di un caro amico, che lei aveva praticamente cresciuto come un nipote.

Quella rivelazione demoliva l’immagine che Larisa aveva di sé. Non era di nessuno. Non era stata rifiutata. C’era una nonna che l’aveva amata, cercata, sofferta. All’improvviso la decisione della mattina le parve un incubo. Uscì in strada, trovò un cestino e ci gettò l’impegnativa per l’aborto.

Per la prima volta dopo tanto, dentro si accese qualcosa. Non una vaga speranza: una luce. Aveva una casa. Aveva dei mezzi. Aveva radici. Aveva una famiglia — inattesa, ma reale.

— Ce la farò — sussurrò nell’aria umida. — Io e il mio bambino vivremo. E non solo: saremo felici.

Una settimana dopo arrivò alla casa di campagna. Se ne stava appartata, solida, in legno di pino; davanti, un’aiuola curata che in primavera doveva esplodere di fiori. Al cancello l’aspettava un ragazzo alto in giacca da lavoro, appoggiato a un palo, negli occhi una punta d’ironia.

— Quindi tu saresti la nipote piovuta dal cielo — disse invece di salutarla. — Io sono Semion.

— Larisa — rispose, secca, sentendo una brusca antipatia. Sembrava che lui la vedesse come una predatrice venuta a portargli via l’ultima cosa che gli restava.

— Avanti, entra, ereditiera. Vediamo come pensi di cinguettare qui per un anno — aprì il cancelletto.

Dentro era caldo e accogliente; profumo di legno e erbe. Sul tavolo, la foto di una donna anziana dagli occhi buoni e intelligenti: babà Nina.

— Ti aspettava tanto — mormorò Semion, seguendo il suo sguardo. — Diceva sempre: “Troverò la mia Laročka. La troverò e la abbraccerò”.

Nella sua voce c’erano affetto e dolore così sinceri che Larisa capì: lui non era soltanto un inquilino. Era parte della casa. Di diritto del cuore. E lei — una comparsa arrivata per una firma.

— Ascolta — disse ferma. — Questo accordo serve a me quanto a te. Non voglio darti fastidio. Ho bisogno di questo anno per rimettermi in piedi. Mettiamoci d’accordo: ci sopportiamo e basta.

Semion la guardò, sorpreso. Si aspettava capricci, scene, pianti. Invece ottenne un patto chiaro.

— Sopportarci, eh? — sogghignò, ma senza veleno. — D’accordo. La mia stanza è di sopra. La tua è al piano terra, affaccia sul giardino. Cucina in comune. Non ti perderai.

Si voltò verso la finestra e, in quell’istante, Larisa colse la stanchezza dietro la sua ruvidità: un uomo solo. Sotto il sarcasmo, lo stesso vuoto, la stessa nostalgia. Fu il primo filo tra loro.

La vita prese ritmo. Larisa trovò un posto come aiuto cuoca alla mensa della scuola. Lavoro semplice, ma sicuro. Ogni rublo le restituiva fiducia. Mise mano alle aiuole, piantò verdure, disseminò il giardinetto di astri e garofanini d’India — come amava da bambina. La casa tornava a respirare.

All’inizio Semion restava defilato. Ma osservava. Vedeva crescere la pancia. Taceva: non erano affari suoi. Finché un giorno Larisa cercò di spostare un comò pesante. L’aveva quasi mosso quando lui comparve sulla soglia.

— Ma sei impazzita?! — ringhiò. — Posalo subito.

Con facilità sollevò il mobile come fosse vuoto, poi si girò verso di lei:

— Se ti vedo ancora fare sforzi così, ti sbatto fuori. E chi s’è visto s’è visto. Chiaro?

Da quel momento, qualcosa cambiò. Semion iniziò a prendersi cura di lei senza proclami. Portava il latte, aggiustava il rubinetto, spaccava la legna. Nessuna parola dolce, ma gesti che parlavano più forte.

La sera bevevano tè e chiacchieravano. Larisa raccontava dell’orfanotrofio, delle paure, dei progetti. Semion del suo passato difficile, di come babà Nina gli avesse salvato la pelle. Il dolore condiviso li avvicinava. Un giorno, nominato Kolia, vide il volto di lui scurirsi.

— Dammi il suo indirizzo. Ci penso io — disse a denti stretti.

— Non serve, Sjoma — lo fermò piano. — È passato. Che si arrangi.

Guardandolo — severo ma familiare — capì che il passato non aveva più presa.

Le doglie iniziarono nel cuore della notte. Taglienti, improvvise. Larisa gemette; primo pensiero: paura. Era sola. L’ambulanza sarebbe arrivata chissà quando. Bastò un suo richiamo e Semion precipitò giù dalle scale, spettinato, in pantaloni e basta, con lo sguardo terrorizzato.

— È cominciato?

Corse per casa, chiamò l’ambulanza, rovesciò un bicchiere, cercò la borsa già pronta da settimane. Non la lasciò un istante. La sua frenesia, paradossalmente, la calmava.

Quando arrivarono i soccorsi, l’infermiera gli fece un cenno:

— Papà, si rilassi: andrà bene.

Semion non spiegò nulla. Sollevò Larisa con una delicatezza incredibile e la portò fuori. Le teneva la mano, le asciugava il sudore, rispondeva ai medici. Restò. Sempre.

Fu allora che Larisa capì: lo amava. Non per dovere. Lo amava perché era appoggio, riparo, casa. L’accordo smise di essere una gabbia. Divenne famiglia.

Passarono due anni. L’anno del testamento era finito da un pezzo e nessuno aveva fatto le valigie. Larisa, Semion e la loro figlia Marina vivevano nella stessa casa — ormai una fortezza. Semion aveva messo in piedi un gommista che andava alla grande. Larisa era madre felice, moglie, padrona di casa.

Un giorno, al centro commerciale, Semion spingeva il carrello con Marina che rideva seduta dentro. Larisa sceglieva un berretto. Felicità semplice, quotidiana.

Poi, all’improvviso, uno sguardo. Kolia. Stesso sorriso, stessi occhi — solo più stanchi.

— Larisa? Che caso, rivederti!

— Non abbiamo nulla in comune, Kolia. E nulla da dirci — rispose fredda, avvicinandosi a Semion.

Lui fece un passo avanti, senza una parola. Alto, solido, calmo. Un muro. Nessuna minaccia, nessuna posa. Semplicemente, la presenza di chi protegge ciò che ama.

Kolia si sgonfiò. Borbottò qualcosa e sparì tra la folla.

Semion abbracciò Larisa.

— Tutto bene?

— Sì — sospirò. — Meglio che bene.

Guardò suo marito, sua figlia, la loro casa interiore. Il cuore si riempì di gratitudine: per la nonna, per il destino, per se stessa — per non aver fatto, nell’ora più buia, quel passo nel vuoto.

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Il suo cammino era stato tortuoso, ma l’aveva condotta esattamente dove doveva arrivare: all’amore, alla famiglia, a una felicità vera, guadagnata anche attraverso il dolore.

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