In uno dei palazzi più prestigiosi della città si era liberata una posizione ambita: programmatore per un progetto internazionale, ben retribuito e con concrete possibilità di carriera. L’azienda aveva deciso di organizzare una giornata di colloqui aperti: chiunque poteva presentarsi, dai giovani neolaureati agli specialisti con anni di esperienza. L’unico requisito? Competenze solide, passione autentica e ambizione.
La mattina dell’incontro, il corridoio davanti alla sala colloqui era affollato di candidati pieni di fiducia. C’era chi stringeva cartelline nuove, chi indossava completi impeccabili; tutti parlavano fitto di algoritmi, progetti passati e aspettative per il futuro. L’aria era carica di competitività.
Poi, nel silenzio generale, apparve lei.
Una donna sulla sessantina, in un elegante tailleur nero, i capelli bianchi raccolti con cura, una valigetta di pelle in mano. Camminò con passo sicuro, sedendosi senza fretta all’estremità della fila.
I bisbigli non tardarono a diffondersi.
— «Sul serio? A quell’età?»
— «Una programmatrice? Impossibile!»
— «Magari non sa nemmeno accendere il PC…»
Alcuni ridevano apertamente, altri registravano video con il telefono, qualcuno si permise persino battute pungenti ad alta voce. Nessuno, in quel momento, avrebbe potuto immaginare chi fosse davvero quella signora.
Quando i candidati furono convocati nella grande sala, li attendevano i responsabili HR. La donna era lì, accanto a loro. Un giovane candidato, con tono sprezzante, chiese ironicamente:
— «Anche lei partecipa al colloquio? Perché questa è una selezione tecnica, non un dopolavoro…»
La responsabile delle risorse umane si alzò e, con voce calma, dichiarò:
— «Questa signora non è qui solo come candidata. Fa parte della prova di oggi. Volevamo osservare le vostre reazioni di fronte a una persona che non corrispondeva alla vostra idea di “candidato ideale”. Perché per noi non contano solo le competenze: contano il rispetto, l’empatia e la capacità di lavorare in squadra. Se non riuscite a trattare con dignità chi vi sembra diverso, come potreste collaborare in un team?»
Cade un silenzio imbarazzante.
Alla fase successiva furono ammessi soltanto tre candidati: quelli che avevano salutato la donna, ceduto il posto o semplicemente evitato commenti sprezzanti. Tutti gli altri uscirono dalla sala, arrossendo di vergogna.
La responsabile HR allora rivelò l’identità della donna.
— «Permettetemi di presentarvi la dottoressa Elena Mikhailova. È stata tra le pioniere dell’informatica nel nostro Paese: ha scritto codici fondamentali che ancora oggi sostengono interi sistemi, ha guidato squadre di ingegneri, ha pubblicato studi sull’intelligenza artificiale quando erano in pochi a capirne il senso, ed è stata consulente per governi e grandi aziende di sicurezza informatica. È in pensione da cinque anni, ma oggi ha accettato di aiutarci con questo esperimento.»
I tre candidati rimasti si ricomposero sulle sedie, improvvisamente consapevoli di trovarsi davanti a una leggenda vivente.
La dottoressa Mikhailova prese la parola:
— «Non sono qui in cerca di lavoro. Sono venuta a vedere come la nuova generazione accoglie chi ha percorso la strada prima di lei. In programmazione, come nella vita, tutto cambia rapidamente. Ma il rispetto non dovrebbe mai passare di moda.»
Poi iniziò la vera prova tecnica, che i tre finalisti superarono con successo. A ciascuno di loro la dottoressa offrì un posto in un programma speciale di mentoring, stringendo la mano a ognuno e dicendo:
— «Ricordatevi di questo giorno. Un domani sarete voi i colleghi dai capelli grigi. E la cultura che contribuirete a costruire oggi sarà quella che troverete ad accogliervi domani.»
Intanto, fuori, i candidati esclusi restavano nel corridoio, incapaci di cancellare dalla mente il fallimento più grande: non quello sugli algoritmi, ma sulla prova più semplice e al tempo stesso più difficile — la prova dell’umanità.