Sorpresa per mia sorella

All’ottavo mese mi trascinavo da una stanza all’altra con l’andatura buffa di un pinguino ben nutrito, convinta che il mio problema più grande sarebbero state le caviglie a palloncino. Che ingenuità. Il vero mal di testa non era la gravidanza: era mia sorella.

Pensavo di presentarmi al matrimonio di Tania da semplice invitata. Nella sua mente, invece, avevo un altro incarico. Non la damigella d’onore, non il braccio destro affettuoso. No: lei dava per scontato che passassi la notte a scarrozzare i suoi ospiti ubriachi.

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La logica contorta era questa: mio marito gestisce una ditta di trasporti privati e io “non bevo”. Il dettaglio che le sfuggiva? Timofej stava preparando una lezione che non avrebbe dimenticato.

Tania è cresciuta in un universo in cui la parola “no” non esiste. È quel tipo di persona che non chiede: dispone. E per anni tutti l’hanno accontentata, più per non rovinarsi la serata che per vero consenso. Così, mentre io incollavo peonie finte su barattoli per i centrotavola, annunciò la sua ultima trovata.

«Ho deciso che offriremo a tutti un servizio di trasporto di lusso gratuito», disse, sfogliando l’agenda come se dettasse le previsioni del tempo.
Alzai lo sguardo dal tavolo. «In che senso… paghi tu?»

Neppure mi guardò.
«Dai, Galja, tuo marito ha l’azienda. È perfetto.»
Nella stanza cadde un silenzio spesso, il genere che precede la scintilla.
«Non ce l’hai chiesto», risposi, col pancione che si irrigidiva più per l’incredulità che per le contrazioni.
Lei sbuffò. «Sei incinta, non bevi. È logico: guidi tu. Tutti ci guadagnano.»
Tutti tranne me. E Timofej. E i nostri dipendenti. E, già che ci siamo, il buon senso.

Quella sera, in auto, raccontai tutto a mio marito. Rimase imperturbabile. Ascoltò, annuì, poi sussurrò con un mezzo sorriso: «Avrà esattamente ciò che ha ordinato.» In quel momento capii che aveva un piano.

Il giorno del matrimonio arrivò cupo e carico, come prima di un temporale. La location era una tenuta vinicola in affitto: profumo di fiori costosi e aspettative irreali. Io, in ballerine, abbracciavo il mio corpo rotondo che sembrava avere una propria gravità. Avevo dormito poco, mangiato a malapena. Eppure ero lì. Perché, in teoria, è questo che fanno le sorelle.

Tania la incrociai appena: un vortice di raso e lustrini, il gloss che brillava sotto le luci. Mi stampò un bacio sulla guancia: «Grazie per esserti resa disponibile, Galja. Sapevo che ce l’avresti fatta.» Sorrisi. Perché sapevo già cosa sarebbe successo.

Alle 21:30, puntuali, comparvero davanti all’ingresso principale cinque berline nere lucide come specchi. Portiere che si chiudevano come un sussurro, autisti in uniforme con tablet e cartelline in mano. Una scena da film. Gli invitati andarono in visibilio.
«Che chic», mormorò uno. «Questo matrimonio è pazzesco!»
Vero. Ma non nel senso che pensavano.

La prima auto partì, poi la seconda. All’inizio, tutto filò liscio. Poi arrivarono i messaggi. I bisbigli. Le occhiate scure. Alle undici, il telefono di Tania ronzava nella clutch firmata come una bomba a orologeria.

All’arrivo in hotel, gli autisti dicevano con cortesia professionale:
«Sono 3.000 rubli, preferisce carta o contanti?»
Gli ospiti sbiancavano. «Ma… la sposa ha detto che era gratis!»
«Mi spiace. Il servizio è stato prenotato alle nostre tariffe standard. Forse c’è stato un malinteso?»

Non era un malinteso. Era un boomerang.

Ero seduta vicino al tavolo dei dolci quando Tania mi trovò. Tacco su tacco, come colpi secchi sul pavimento. Il bouquet già malconcio.
«Adesso mi dici che succede», sibilò.
Sollevai gli occhi e assaggiai un cucchiaio di mousse alla vaniglia. «Gli ospiti mi scrivono: stanno pagando i passaggi!»
«Sì», dissi serena. «Stanno pagando.»
«Ma mi avevi detto che Timofej avrebbe pensato a tutto!»
«E infatti l’ha fatto. Professionalmente. Non hai firmato niente, non hai confermato nulla. Ha trattato il servizio come fa con chiunque: con dignità… e con una tariffa.»
Le sparì il sangue dal viso. «Mi state facendo fare la figura della millantatrice.»
Mi alzai con calma, il pancione in primo piano. «No, Tania. Quella figura te la sei costruita da sola. Noi semplicemente non abbiamo spazzato la polvere sotto il tappeto.»
«Sei mia sorella!»
«E al tuo matrimonio ero il personale di servizio, a quanto pare. L’hai detto tu.»

La mattina seguente, messaggio vocale. La sua voce graffiata dalla rabbia: «Mi hai umiliata. Non ti perdonerò mai.» Lo ascoltai due volte. Poi cancellai.

Tre giorni dopo, in macchina accanto a Timofej, il piccolo scalciava leggero sotto le costole. Il medico aveva appena confermato: tutto perfetto, a testa in giù, quasi pronto.
«Ti ha cercata?» chiese lui.
«No.»
«Le passerà.»
Sorrisi. «Forse. Forse no. Ma io non ruoto più nella sua orbita.»
Lui sogghignò. «Giusto.»
«Pensava che avremmo lavorato gratis al suo matrimonio», dissi accarezzando la pancia.
«Ha fatto male i conti», rispose baciandomi la tempia.

Per la prima volta, dopo anni, mi sentii libera.

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C’è chi scambia l’amore per una forma di servitù. Ma l’amore vero rispetta i confini, riconosce l’impegno e non dà nulla per scontato. Non ero più solo una sorella. Stavo per diventare madre. E questo significa insegnare fin da subito a mio figlio che la dignità non è merce in saldo.

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