Non avrei mai pensato che un unico turno di lavoro potesse ribaltare completamente la mia vita. Mi chiamo Valentina e quel venerdì d’autunno, a Buenos Aires, servivo ai tavoli del Gran Hotel Emperador, uno degli alberghi più raffinati della città. Per me era soltanto l’ennesima serata di beneficenza: saloni lucidi, fiori ovunque, risate educate, e gente talmente ricca da non notare nemmeno chi portava i vassoi.
Finché non è arrivato lui.
Santiago Herrera. Costruttore, proprietario di mezzo centro di Buenos Aires e, a quanto si dice, di un ego ancora più esteso. Entrò circondato da amici rumorosi che ridevano troppo forte e tracannavano champagne francese come fosse acqua. Io stavo versando vino al tavolo accanto al loro, quando una risata tagliente mi attraversò le spalle.
— Guardate, ragazzi — disse indicando proprio me, con quel mezzo sorriso di chi non è abituato a sentirsi dire di no —. Scommetto che mi sposo con quella cameriera se sa ballare il tango con me.
I suoi amici scoppiarono a ridere. Io rimasi immobile, il collo rigido, le mani strette attorno alla bottiglia. Non aveva la minima idea di chi fossi davvero.
Ti è mai capitato che qualcuno ti sottovalutasse così tanto… da pentirsene amaramente dopo?
Quella mattina mi ero alzata alle cinque, come sempre. Il mio monolocale a San Telmo era ancora immerso nel buio, e dalla finestrella sopra il lavello vedevo accendersi le prime luci nei palazzi di fronte. Buenos Aires si svegliava piano, lenta come un tango rallentato.
Misi l’acqua sul fuoco e andai in bagno. Nello specchio vidi una ragazza di ventisei anni: capelli castani raccolti in uno chignon sbrigativo, occhiaie leggere sotto gli occhi scuri, quello stesso sguardo che due anni prima apparteneva a una ballerina professionista… e che ora sembrava soltanto stanco.
Indossai la divisa bianca e nera del Gran Hotel Emperador. Gonna al ginocchio, camicetta a maniche lunghe che copriva segni che non avevo intenzione di mostrare a nessuno. Le scarpe basse erano pratiche, ma i miei piedi da ballerina continuavano a trovarle estranee, come se mancasse qualcosa.
Salii sul 29 e lasciai che l’autobus mi portasse verso il centro. Guardavo dal finestrino le panetterie che alzavano le saracinesche, gli impiegati con il caffè in mano, i primi taxi incolonnati. Buenos Aires aveva un ritmo tutto suo, un respiro che conoscevo da sempre. Avevo ballato per queste strade per gran parte della mia vita.
In hotel salutai María Elena, la supervisora, una donna sulla cinquantina che fin dal primo giorno mi trattava come una figlia.
— Buongiorno, Valentina. Oggi c’è il benefico dell’ospedale italiano. Gente grossa, molto grossa.
— Quanti coperti? — chiesi, allacciandomi il grembiule.
— Duecento. E indovina? Sei in sala principale.
La sala principale era il cuore degli eventi più esclusivi: soffitti alti, lampadari di cristallo, pavimento di marmo lucido che rifletteva le luci. Una bellezza fredda, perfetta… e per me un continuo promemoria del mondo da cui ero caduta.
Verso le sei cominciarono ad arrivare gli ospiti. Uomini in smoking, donne avvolte in abiti che valevano quanto il mio stipendio annuale, gioielli che scintillavano come piccole stelle sotto le luci dorate. Io mi muovevo tra loro leggera e invisibile: champagne, piatti da ritirare, sorrisi educati che nessuno ricambiava davvero.
Fu allora che lo vidi entrare.
Santiago Herrera avanzò nel salone come se ne fosse il proprietario. Alto, spalle larghe, capelli neri pettinati all’indietro, un completo italiano che sembrava cucito sul suo corpo. Sapevo che aveva trentadue anni: i giornali parlavano continuamente di lui. Erede di una famiglia tradizionale, re degli immobili, giovane volto del potere.
Era con tre amici, una sua versione sbiadita: stesse giacche costose, stessa arroganza, solo meno carisma. Ridevano, occupavano spazio, si comportavano come se tutto il resto fosse scenografia di uno spettacolo creato per loro.
— Santiago, questa festa è un po’ morta — sbuffò il biondino con baffi sottili. — Dov’è il divertimento?
— Calma, Rodrigo — rispose lui, afferrando un flute da un vassoio che passava. — La notte è appena cominciata.
Stavo sistemando i tavoli poco lontano quando le loro voci si fecero più acute: parlavano di scommesse, di “impressionare” qualcuno. Uno lanciò la sfida, gli altri rilanciarono. Io non prestai troppa attenzione, finché non feci un mezzo passo falso.
Mentre versavo il vino a un tavolo, inciampai leggermente; qualche goccia cadde sulla tovaglia candida, disegnando piccole macchie rosse.
— Attenta — disse gentilmente il signore seduto lì.
— Mi scusi tanto, signore — mormorai, cercando di asciugare in fretta.
La voce di Santiago, però, attraversò tutta la sala.
— Guardate, ragazzi — annunciò, indicando proprio me —, scommetto che mi sposo con questa cameriera se sa ballare il tango con me.
Un attimo di silenzio, poi l’esplosione delle risate.
— Sei fuori di testa — rise Rodrigo. — Sposarti con una cameriera!
— Sarebbe uno spettacolo vederlo — aggiunse l’uomo con gli occhiali dorati.
Sentii il calore risalire dal petto al viso. Non era imbarazzo: era rabbia. Fredda, limpida, lucida. Era da tempo che non mi attraversava così.
Mi voltai lentamente. Lo guardai negli occhi.
— Lo dicevi sul serio? — chiesi con voce ferma.
Lo colsi di sorpresa. Probabilmente non era abituato a sentirsi rispondere da chi considerava “servizio”.
— Bé, era una battuta — farfugliò.
— Non sembrava una battuta — ribattei. — Sembrava una proposta.
I suoi amici ammutolirono, quasi in attesa del disastro. Santiago recuperò in fretta la sua maschera di sicurezza. Il sorriso tornò, ma dietro c’era qualcos’altro: curiosità, forse.
— D’accordo — disse, porgendomi la mano con una teatralità studiata —. Se balli, mi sposo con te.
Per loro era uno scherzo. Per tutti, tranne che per me.
Perché due anni prima ero stata Valentina Morales, prima ballerina del Teatro Colón. Avevo calcato i palchi più importanti del Sud America. Avevo sentito il boato di migliaia di persone tremare nelle ossa. E il tango non era solo un ballo: era il mio sangue.
— Accetto — risposi, slacciando il grembiule.
Il silenzio che seguì fu quasi fisico. Potevo sentire gli sguardi puntati addosso. Santiago mi fissava come se all’improvviso io fossi diventata un enigma. María Elena comparve al mio fianco, sbiancata.
— Valentina, non sei obbligata a…
— Va tutto bene — la interruppi senza distogliere lo sguardo da lui. — Solo qualche minuto.
Lui esitò. Forse intuiva di aver superato un limite. Ma l’orgoglio vinse.
Si avvicinò all’orchestra in un angolo della sala, fece cenno di interrompere la musica di sottofondo.
— Maestro! — chiamò. — Ci regala un tango? Uno classico.
Il direttore, un signore dai capelli bianchi, annuì con un sorriso curioso. Disse qualcosa ai musicisti, che accordarono gli strumenti.
Intanto io cercavo di respirare. Erano passati due anni dall’ultima volta che avevo danzato davanti a qualcuno. Due anni da quella notte al Colón in cui tutto era crollato. I muscoli ricordavano, ma il cuore era avvolto in un’armatura di paura.
Santiago tornò da me e mi porse la mano con un mezzo inchino esagerato.
— Signora — provò a scherzare, ma nei suoi occhi c’era un’ombra di serietà nuova.
Posai le dita nelle sue. La sua mano era grande, forte, con calli che non mi sarei aspettata da un miliardario. Mani che conoscevano i cantieri, non solo le firme.
— Sei sicuro? — sussurrò, come se avesse paura di farmi male.
— Più che sicura — risposi.
Le prime note di “La Cumparsita” si diffusero nella sala. Il tango dei tanghi, quello che ogni porteno impara quasi prima di camminare. Chiusi gli occhi per un secondo e lasciai che la musica mi attraversasse.
Santiago posò la mano sulla mia schiena, prese la mia sinistra. La postura era buona: sapeva quello che faceva. Sicuramente aveva preso lezioni da ragazzo, come tradizione vuole nelle famiglie “perbene”. Ma io non ero una donna qualunque con qualche passo di base.
Appena ci muovemmo, sentii il suo corpo teso. Cercava di guidare con sicurezza, ma con prudenza, senza esagerare: voleva evitare che inciampassi e mi mettessi in ridicolo. Non aveva capito.
Al terzo tempo, quando tentò un semplice giro, lo anticipai. Mi inarcai all’indietro in una figura pulita, profonda, lasciandomi sostenere dalla sua presa. Per un istante restammo sospesi, i miei capelli quasi a sfiorare il pavimento.
Quando tornai in posizione, vidi lo stupore nei suoi occhi.
— Tu… — iniziò.
Non gli diedi il tempo.
Usai il suo stesso abbraccio per guidarlo in una sequenza di passi che chiedevano tecnica vera: incroci, pivot, giri rapidi. I miei piedi si mossero come se non si fossero mai fermati, ricordando ogni prova, ogni spettacolo, ogni applauso.
Lui riuscì a starmi dietro. E non solo: rispose, si adattò, migliorò. La sua guida divenne più precisa, la nostra connessione più intensa. Non c’erano più scommesse né battute; solo due corpi che dialogavano in una lingua antica.
La sala smise di mormorare. I camerieri si fermarono. Duecento persone trattenevano il fiato.
Io, per la prima volta dopo due anni, mi sentii di nuovo al posto giusto.
La musica salì e noi con lei. Santiago mi condusse in una sequenza che avrebbe messo in difficoltà molte ballerine. Le sue mani erano salde ma rispettose; il suo modo di guidarmi, chiaro ma mai prepotente. Aveva capito con chi stava ballando, e si era adeguato.
Nel culmine del brano mi distese di nuovo all’indietro. Questa volta, però, il momento si dilatò. I nostri volti erano vicinissimi, il suo respiro caldo sulla mia pelle. nelle sue pupille leggevo qualcosa oltre l’ammirazione: desiderio, forse, ma anche un rispetto che non mi aspettavo.
Quando la musica finì, restammo abbracciati qualche secondo di troppo. Poi il salone esplose in un applauso fragoroso.
Santiago mi aiutò a rimettermi dritta, ma non lasciò subito la mia mano.
— Chi sei? — sussurrò.
Prima che potessi rispondere, María Elena apparve accanto a me, commossa e agitata.
— Valentina, tesoro, dovresti tornare al servizio — disse con dolcezza.
Annuii, sciolsi la mano di Santiago, rimisi il grembiule. Tornai tra i tavoli sentendo il suo sguardo fisso sulla mia schiena. In pochi minuti, qualcosa era cambiato. In me. In lui. Nella stanza intera.
Il resto della serata lo vissi come dentro una leggera nebbia. Continuavo a svolgere il mio lavoro, ma avvertivo chiaramente gli sguardi: curiosi, ammirati, sorpresi. Sussurri ovunque.
Santiago era tornato al suo tavolo, ma non era più lo stesso. Non rideva più a crepapelle, non ostentava. Cercava me con gli occhi e, ogni volta che i nostri sguardi si incontravano, li abbassava come un ragazzino colto in fallo.
Verso le dieci, mentre raccoglievo bicchieri vuoti vicino al loro tavolo, lo sentii parlare.
— Ti sei fatto serio dopo quel ballo — commentò Rodrigo. — Era solo uno scherzo.
— Già… — aggiunse l’amico con gli occhiali d’oro. — Non vorrai mica sposarti con una cameriera, vero?
Santiago rigirò il bicchiere tra le dita. Ci pensò un attimo.
— L’avete vista ballare? — chiese poi, calmo. — Non è stata fortuna. È una professionista.
— Professionista… in cosa? Nel portare i vassoi? — rise il rosso.
Quelle parole mi colpirono diritto nello stomaco. Mi costrinsero a respirare a fondo per non reagire.
— Non avete capito — ribatté Santiago, infastidito. — Balla meglio di qualsiasi donna con cui abbia danzato.
— Meglio delle maestre del club… — cominciò uno.
— Meglio, punto — lo bloccò l’altro.
— Dai, è una cameriera — insistette il rosso. — Non esagerare.
— Smettetela di chiamarla così — tagliò corto Santiago. — Ha un nome.
Si alzò di scatto.
— Siete voi ad avermi sfidato, ricordate? Dovevo impressionare qualcuno. Missione compiuta: sono io quello impressionato.
I tre rimasero a bocca aperta. Lui si allontanò verso il bancone, lasciandoli lì.
Un po’ più tardi, mentre preparavo i vassoi dei dolci nella zona di servizio, María Elena si avvicinò con un’espressione tesa.
— Valentina, c’è un uomo che chiede di te.
Il cuore mi scese nei piedi.
— Chi? — domandai, improvvisamente tesa.
— Santiago Herrera. Dice che ti aspetterà sul portico sul retro.
Il portico era il nostro piccolo rifugio: un balconcino che dava su un cortile pieno di piante, dove a volte il personale andava a respirare o fumare.
Mi tolsi il grembiule, mi sistemai i capelli come potevo e uscii.
Lui era lì, appoggiato alla ringhiera, la giacca sulle spalle, la cravatta allentata. Sembrava meno intoccabile, più… umano.
— Mi cercavi? — dissi, chiudendo la porta dietro di me.
Si girò. Gli occhi non avevano più nulla dell’arroganza di prima; al loro posto, un imbarazzo quasi timido.
— Prima di tutto — iniziò —, chiamami Santiago. Niente “signore”. E poi… volevo chiederti scusa.
Quello non me lo aspettavo.
— Per cosa?
— Per quello che ho detto dentro — sospirò. — È stato meschino, inutile. Non ti meritavi di essere trasformata in una scommessa idiota.
Lo osservai in silenzio. Sembrava sinceramente pentito.
— Gli amici mi hanno provocato e io… ho fatto la prima stupidaggine che mi è venuta in mente — continuò. — Non pensavo che avresti accettato. E tantomeno che… — fece un gesto vago con la mano — che sarebbe stato così.
— Così…?
— Straordinario — concluse, abbassando lo sguardo. — Dove hai imparato a ballare in quel modo?
Domanda inevitabile. E pericolosa. Come spiegare Teatro Colón, anni di studio, la carriera troncata in una notte?
— Da bambina — mentii a metà. — Mia madre mi portava a lezione.
Lui annuì, ma capii che intuiva una storia più lunga.
— Hai ballato profesionalmente, vero?
— Ho ballato — tagliai corto. — Ora lavoro qui.
— Perché?
Una parola sola che mi trafisse.
— Le cose cambiano — dissi soltanto.
Mi studiò a lungo, come se sperasse che il resto uscisse da solo.
— Ero serio, sai? — mormorò poi.
— Su cosa?
— Sul matrimonio.
Scoppiai a ridere. Una risata senza gioia.
— Era una battuta. Lo abbiamo capito tutti.
— Non più — replicò, facendo un passo verso di me. — Non dopo averti vista ballare.
Un brivido mi attraversò. C’era un’intensità in lui che mi spaventava quanto mi attirava.
— Non mi conosci — sussurrai.
— Allora lasciami conoscerti.
Quella semplicità mi disarmò. Restammo a fissarci per qualche secondo.
— Devo tornare dentro — tagliai corto.
— Posso vederti domani?
Esitai.
— Per favore — aggiunse, e stavolta nella sua voce non c’era traccia del milionario sicuro di sé. Solo un uomo che chiedeva una possibilità.
— Lavoro tutti i giorni.
— Allora dopo il turno. Solo per parlare.
Avrei dovuto dirgli di no. Avrei dovuto chiudere lì.
— Forse — sussurrai.
Il suo sorriso cambiò. Non era più quello di prima, altezzoso. Era semplice, quasi grato.
Il giorno dopo mi svegliai con un peso strano sul petto: metà ansia, metà curiosità. Era sabato, l’unico giorno libero che avevo quella settimana, ma la scena del tango e lo sguardo di Santiago continuavano a tornarmi in mente.
Mentre sorseggiavo il caffè guardando la via brulicante di San Telmo, il telefono squillò.
— Valentina.
La voce di Carmen, la mia ex collega del Teatro Colón, mi tagliò il respiro.
— Carmen… quanto tempo.
— Due anni, per l’esattezza — disse. — Devo parlarti. Posso passare?
— Non credo sia…
— È importante. Riguarda Diego.
Il nome mi ferì come una lama. Diego Santa María. Il direttore artistico. L’uomo che aveva distrutto la mia carriera e quasi la mia vita.
— Cosa è successo?
— Non posso al telefono. Sto arrivando.
Quindici minuti dopo era sulla mia porta. Sempre bellissima, postura perfetta, cappotto costoso: la carriera di prima ballerina a lei non l’avevano strappata.
— Stai bene? — chiesi, più per riempire il silenzio.
— Sono viva, per ora — sospirò, sedendosi. — Hanno licenziato Diego.
Il mondo si inclinò.
— Come?
— La settimana scorsa. Finalmente qualcuno ha parlato. Non eri l’unica, Val. C’erano altre ragazze. Una ha trovato il coraggio di denunciarlo, poi le altre l’hanno seguita. Il tuo nome è saltato fuori più volte.
Sentii le lacrime salire, calde e improvvise. Due anni di silenzio, di colpa, di vergogna… e ora scoprivo di non essere mai stata sola.
— Vogliono che tu torni — continuò Carmen. — Il nuovo direttore vuole rimettere in scena La Traviata a fine anno. Ha chiesto proprio di te.
La Traviata. Il mio ultimo ruolo. L’ultima volta prima dell’inferno.
— No — dissi subito. — Non posso.
— Puoi curarti, Val. Terapia, aiuto…
— Non capisci — la interruppi. — Solo l’idea di salire su un palco mi toglie il fiato.
Lei tacque un attimo, poi aggiunse:
— Ti sto dicendo solo che la porta non è chiusa per sempre. Sta a te decidere.
Proprio in quel momento il telefono squillò di nuovo.
— Pronto?
— Valentina? Sono Santiago. Santiago Herrera.
Il cuore mi fece un giro completo nel petto. Carmen mi osservava con un sopracciglio sollevato.
— Come hai avuto il mio numero?
— L’ho chiesto a María Elena. Spero non ti dispiaccia. Pensavo… ti andrebbe di pranzare con me oggi?
— Ho visita — risposi, guardando Carmen.
— Capisco. Domani? Dopo il lavoro? Prometto niente altre proposte di matrimonio — aggiunse, ridendo piano.
Mi scappò un sorriso.
— Va bene. Ma solo per parlare.
— Perfetto. Conosci il Café Tortoni?
Lo conoscevo. Un’istituzione di Buenos Aires.
— Alle dieci e mezza.
— Ci sarò. A domani, Valentina.
Quando chiusi, Carmen mi fissava.
— E questo chi sarebbe?
— Nessuno — mormorai. — Un cliente dell’hotel.
— Un cliente che ti invita al caffè non è “nessuno” — ribatté.
Le raccontai tutto: il ballo, la scommessa, il portico, le scuse. Man mano che parlavo, il suo sguardo cambiava.
— Val… ti rendi conto? Hai ballato in pubblico per la prima volta dopo due anni.
— È stato solo un tango.
— Per te non è mai “solo” un tango. Per pochi minuti sei tornata quella di prima.
Tacqui. Dentro di me, lo sapevo.
La domenica, al Café Tortoni, arrivai in anticipo. Scelsi un tavolino in fondo: vecchia abitudine, mi piace avere la parete alle spalle e il locale sotto controllo. Indossavo un vestito blu semplice, scarpe basse, cardigan. Niente di appariscente, ma più “io” della divisa da cameriera.
Santiago arrivò puntuale. Jeans scuri, camicia bianca aperta al collo. Senza lo smoking sembrava quasi un altro.
— Sei venuta — disse, sinceramente stupito.
— Ti avevo dato la mia parola.
Si sedette, ordinò un cortado e mi studiò un momento.
— Sei diversa — commentò.
— Diversa come?
— Ieri sembravi recitare un ruolo. Oggi sei… più vera.
Quelle parole mi colpirono più di quanto volessi ammettere.
— A volte siamo tutti costretti a recitare — dissi.
— Lo so bene — annuì. — Io faccio “il milionario arrogante” da così tanto che a volte dimentico chi sono sul serio.
Sorrisi, mio malgrado.
Parlammo a lungo. Di Buenos Aires, dei cantieri che lui preferiva alle riunioni, di suo padre che non sopportava di vederlo con le mani sporche di cemento. Poi la conversazione scivolò su mia madre, sulla sarta che aveva fatto turni massacranti per pagarmi le lezioni di danza.
E all’improvviso lui pronunciò le parole che temevo:
— Dev’essere stata orgogliosa quando ti ha vista al Teatro Colón.
Il mondo si fermò.
— Come lo sai? — chiesi piano.
— Ho cercato il tuo nome — ammise, senza giri di parole. — Dopo quella sera… dovevo capire chi fossi. Valentina Morales. Prima ballerina per cinque anni. Specializzata in ruoli drammatici. L’ultima esibizione è stata La Traviata, due anni fa. E poi: il vuoto. Come se fossi sparita.
Il respiro mi si bloccò in gola.
— Santiago, io…
— Cosa è successo, Valentina? — chiese, senza durezza ma senza farsi indietro. — Perché una ballerina al culmine della carriera finisce a servire ai tavoli?
Le lacrime arrivarono ancora prima che potessi decidere se lasciarle scendere.
Due anni non avevo raccontato niente a nessuno. A lui, invece, in qualche modo volevo dirlo.
— C’era un uomo — cominciai. — Il direttore artistico. Diego Santa María.
Vidi le sue mascelle irrigidirsi.
— Mi tormentava da mesi — continuai, a voce bassa. — Battutine, inviti, allusioni. Poi ricatti. Diceva che il mio futuro dipendeva dal fatto che accettassi le sue avance. Io l’ho sempre respinto. Finché, dopo La Traviata, mi chiamò nel suo ufficio per “parlare del contratto”.
Deglutii.
— Chiuse la porta a chiave. Disse che era ora che smettessi di fare “la principessa”. Che nessuna arrivava in alto senza pagare il prezzo. Cercò di… — la voce si spezzò.
— Ti ha aggredita — concluse lui per me, piano.
Annuii.
— Sono riuscita a strapparmi e ho afferrato la prima cosa che avevo vicino: una bottiglia di vino. Gliel’ho rotta in testa. Gli ho lasciato una cicatrice che non dimenticherà mai.
Gli occhi di Santiago si oscurarono.
— Ti sei difesa — disse.
— Il giorno dopo, però, la versione ufficiale fu che io avevo “perso il controllo” e danneggiato il patrimonio del teatro. Mi licenziarono in silenzio. Lui mi disse che se avessi parlato mi avrebbe rovinata del tutto. Che sapeva dove vivevo, dove lavorava mia madre. Che poteva distruggerci. E io… gli ho creduto.
Il telefono vibrò. Un messaggio da un numero anonimo:
“Ho saputo che ti vedi con Santiago Herrera. Interessante, per una che dovrebbe stare zitta. Forse è ora di ricordarti le nostre vecchie conversazioni. Ti ricordi cosa succede quando non obbedisci, vero? — D.”
Sentii il sangue gelarsi.
— Valentina? — chiese Santiago, vedendo il mio viso cambiare.
Gli mostrai il messaggio. Lo lessi negli occhi: passò dalla sorpresa alla furia.
— Sta cercando di spaventarti — disse.
— Carmen mi ha detto che l’hanno licenziato. Ha paura che io possa testimoniare — sussurrai. — Se sa che sono con te, vuol dire che mi sta tenendo d’occhio.
— Quante persone conoscono la vostra storia?
— Nessuno. O meglio… nessuno a cui l’abbia mai raccontata. Sei il primo.
Santiago rimase in silenzio per qualche secondo.
— Allora vuol dire che ti ha seguita, ieri in hotel e oggi qui.
Mi prese la mano sul tavolo.
— Non ti farà più del male — disse, con una calma che mi colpì.
— Non puoi saperlo.
— So che uomini come lui non si fermano da soli. Ma so anche che ora non sei più sola.
Quelle parole rimasero a vibrare dentro di me.
Il pomeriggio, nel mio appartamento, fissavo ancora quel messaggio. L’eco della minaccia di due anni prima era tornata viva, uguale.
“Ricordi cosa succede quando non obbedisci?”
Ricordavo eccome. Ricordavo il sangue, l’odore del vino, la sua voce sporca promettermi vendetta.
Il telefono squillò di nuovo. Santiago.
— Come stai?
— Ho paura — ammisi.
— Dove sei?
— A casa.
— Non mi piace che tu resti lì da sola adesso — disse. — Oggi è diverso dagli altri giorni. Oggi lui sa che il silenzio potrebbe finire.
Aveva ragione, e lo sapevamo entrambi.
— Non voglio trascinarti in questo — mormorai. — Hai un’azienda, una famiglia. Non è il tuo problema.
— Lo è dal momento in cui sei scesa su quella pista con me — replicò. — E dal momento in cui mi hai raccontato la verità.
In quel momento sentii un rumore secco alla porta, come se qualcuno stesse provando la maniglia.
— Santiago… c’è qualcuno alla porta.
— Come?
Il rumore si ripeté, più forte.
— Sta cercando di entrare.
— C’è una finestra sul retro? Un cortile? — chiese subito.
— Sì, dalla camera.
— Prendi lo stretto necessario ed esci da lì. Io sto arrivando.
Presi uno zainetto, infilai qualche vestito alla rinfusa. Non sapevo se fosse davvero lui, se stessi esagerando, ma non avevo più intenzione di giocare con la paura.
Mi calai nel piccolo cortile condominiale, attraversai il passaggio verso la strada secondaria e aspettai all’angolo, con il cuore in gola. Ogni passo dietro di me mi sembrava un’ombra.
Quando vidi la Mercedes di Santiago svoltare la strada, sentii finalmente il respiro tornare.
Salii in macchina, ancora tremante.
— Andiamo via di qui — disse soltanto.
— Dove?
— A casa mia, a Puerto Madero. Portineria, sicurezza, telecamere. Lì finché decidiamo cosa fare.
Avrei dovuto protestare, ma ero troppo stanca per fingere di poter gestire tutto da sola.
— Grazie — riuscii solo a dire.
— Non mi ringraziare ancora — rispose. — Inizierò a meritarmi il grazie quando sarà al sicuro.
Il suo loft a Puerto Madero era l’opposto del mio appartamento: grande, luminoso, con vetrate affacciate sull’acqua e una calma sospesa sulla città. Nessun ostentato lusso, solo buon gusto e spazio.
— Da oggi considera questo posto un rifugio — disse, poggiando il mio zaino sul divano. — Qui non ti trova nessuno che io non voglia.
Mi avvicinai alla vetrata. Buenos Aires, vista da lì, sembrava meno minacciosa.
— Dobbiamo pensare a cosa fare ora — continuò lui, raggiungendomi. — Una cosa è chiara: non puoi continuare a scappare per sempre.
Lo sapevo. Avevo passato due anni a scappare. E intanto lui aveva continuato con altre.
— Credo di sapere cosa devo fare — dissi a bassa voce. — Devo andare in polizia. Devo testimoniare.
Santiago sorrise piano.
— Ne sei sicura?
Inspirai profondamente.
— Per la prima volta, sì. Non voglio più che la mia paura protegga lui.
— Allora domani andiamo in commissariato — disse. — Insieme.
“Insieme”. Una parola piccola, ma enorme, per qualcuno che aveva affrontato tutto in solitudine.
La mattina seguente mi svegliai sul divano-letto, disorientata. Per un attimo non ricordai dove fossi. Poi vide Santiago in cucina, con due tazze di caffè.
— Prima di andare — disse, porgendomene una — devo dirti una cosa. Ho chiamato mio padre ieri sera.
Lo guardai, tesa.
— La nostra famiglia non solo finanzia il Teatro Colón — spiegò. — Mio padre è a capo del consiglio. È lui che ha spinto per l’indagine su Diego. Conosce già il tuo nome: sei citata in più testimonianze come “la ballerina che ha avuto il coraggio di reagire e poi è sparita”.
Mi si strinse lo stomaco.
— Quindi sa chi sono?
— Sa che sei stata la prima a ribellarti. E vorrebbe aiutarti. È venuto qui.
Pochi minuti dopo, bussarono.
Eduardo Herrera era un uomo alto, dai capelli grigi, elegante ma non freddo. Aveva lo stesso sguardo deciso di Santiago, solo un po’ più stanco.
— Valentina — disse, stringendomi la mano con rispetto sincero —, è un onore conoscerti. Anche se avrei preferito farlo sotto circostanze diverse.
Con lui c’erano un avvocato, Martínez, e un uomo di sicurezza, Carlos.
— Mio figlio mi ha raccontato — continuò Eduardo. — Hai già dimostrato un coraggio enorme. Ora tocca a noi fare la nostra parte.
L’avvocato mi spiegò cosa significava denunciare ufficialmente: processo, interrogatori, tentativi della difesa di screditarmi, domande su perché avessi aspettato due anni.
Sentii il panico risalire.
— Forse non è il caso… — mormorai.
— Valentina — intervenne Santiago, guardandomi fisso —, ieri hai deciso di non scappare più. L’ho vista quella decisione nascere nei tuoi occhi. Non lasciare che la paura te la rubi adesso.
Eduardo annuì.
— Il coraggio non è non avere paura — disse. — È fare la cosa giusta nonostante la paura.
Li guardai tutti e quattro. Due giorni prima ero una cameriera invisibile. Ora avevo un avvocato, una guardia, un industriale e suo figlio pronti a schierarsi dalla mia parte.
— Andiamo — dissi. — Voglio finire con questa storia.
In commissariato, l’ispettrice González mi accolse con uno sguardo fermo, ma non ostile.
— Signora Morales, grazie per essere venuta. So che non è facile. Cominci dal principio.
Parlai. Dall’inizio. Dalle prime battute di Diego, ai ricatti, a quella notte. Non mi risparmiai nulla: la porta chiusa, le mani addosso, la bottiglia, il sangue, le minacce, il licenziamento.
Santiago, seduto accanto a me, mi strinse la mano sotto il tavolo. L’ispettrice ascoltò senza interrompere.
— La cicatrice che gli ha fatto — disse quando finii — è già presente in altre testimonianze. Rafforza il quadro contro di lui. In più… — esistò un attimo — devo informarla che è stato arrestato stamattina.
Mi mancò il respiro.
— Arrestato?
— Sì. In base alle dichiarazioni raccolte finora. La sua testimonianza lo incastra ancora di più. Non potrà più avvicinarsi a lei.
Mi resi conto che stavo tremando. Ma non era solo paura: era sollievo.
Quando uscimmo dal commissariato, il sole sembrava più chiaro del solito.
— Come ti senti? — chiese Santiago.
Ci pensai un momento.
— Come se avessi tolto un macigno dalle spalle — risposi. — Leggera. E stanchissima.
A pranzo, a Puerto Madero, seduta con Santiago, suo padre e l’avvocato, sentii per la prima volta in due anni qualcosa di simile alla famiglia.
In mezzo al pasto, il telefono squillò. Carmen.
— Val… l’ho visto al notiziario. L’hanno arrestato. Sei stata tu, vero?
— Sì — risposi, la voce rotta.
— Non hai idea di quello che hai fatto per tutte noi — disse piangendo. — La ballerina che due anni fa gli ha rotto la testa è la stessa che oggi lo ha portato davanti alla giustizia. Sei la nostra prima.
Chiusi la chiamata con gli occhi lucidi di un orgoglio che non provavo da tempo.
Tornammo a casa di Santiago e per la prima volta quel loft mi sembrò davvero un posto sicuro, non solo un rifugio d’emergenza.
Quella sera, sul balcone, guardavamo le luci riflettersi sull’acqua.
— E adesso? — chiese lui, piano. — Cosa vuoi fare?
Non era una domanda banale. Per due anni la mia unica risposta era stata: sopravvivere. Ora, all’improvviso, avevo un futuro da riempire.
— Non lo so ancora — ammisi. — Posso, per la prima volta, scegliere.
— Tornerai a ballare? — chiese, senza giri di parole.
Il cuore mi salì in gola solo al pensiero del palco.
— Ho paura — risposi.
— Tre giorni fa hai ballato davanti a duecento persone — mi ricordò dolcemente. — E ti ho vista. Eri viva come non ti ero mai vista.
Aveva ragione. E lo sapevo.
Dall’appartamento accanto arrivarono le note di “Remember You” di Tom Leeb. Una canzone dolce, un po’ malinconica. Perfetta per quel momento sospeso.
— Santiago… — sussurrai — grazie.
— Per cosa?
— Per avermi creduta. Per essere rimasto. Per avermi ricordato che non sono solo quello che mi è successo.
Mi prese il viso tra le mani.
— Posso dirtelo io chi sei? — mormorò.
Annuii.
— Sei la donna più forte che abbia mai incontrato. Hai perso tutto, ti sei rialzata, hai trovato un modo per andare avanti. E ora hai avuto il coraggio di tornare indietro per chiudere i conti.
Le lacrime mi riempirono gli occhi. Lui si chinò e mi baciò. Un bacio dolce, certo e tranquillo, come una promessa di futuro.
— Sai cosa voglio fare domani? — chiesi, quando ci separammo.
— Dimmi.
— Voglio tornare al Colón. Voglio rimettere piede su quel palco.
— Non ci andrai da sola — rispose. — Ci andremo insieme.
Una settimana dopo ero di fronte alle porte del Teatro Colón. Ma non come lavoratrice, non come accusata, non come fuggitiva. Come Valentina, e basta.
Santiago mi teneva la mano mentre salivamo le scale di marmo. Una guardia mi riconobbe subito.
— Signora Morales — disse sorridendo —, è bello rivederla qui. E siamo ancora più contenti per le notizie su Santa María.
Attraversammo i corridoi che conoscevo a memoria. Il teatro sembrava diverso, più piccolo. O forse ero io ad essere cambiata.
— Per due anni è stato il mio incubo — dissi. — E ora… è solo un posto. E forse di nuovo casa.
Sul palco mi tolsi le scarpe e lasciai che i piedi sentissero il legno. Chiusi gli occhi. L’odore, il silenzio, il vuoto della platea… tutto mi colpì al petto.
— Mi è mancato — sussurrai.
— Vuoi ballare? — chiese Santiago.
— Qui? Adesso?
Lui tirò fuori il telefono e fece partire “Libertango”. Le note di Piazzolla riempirono il teatro vuoto.
— Balla con me. Non per gli altri. Per te.
Poggiai la mano nella sua e, per la prima volta dopo tanto tempo, non pensai al giudizio di nessuno. Non pensai alla paura, alle critiche, al passato. Pensai solo al movimento.
Ballammo da soli, al centro del palco vuoto. Senza applausi, senza scommesse, senza occhi addosso. Solo noi due e la musica. Un tango di libertà, non di esibizione.
Quando il brano finì, ero senza fiato e con il cuore leggerissimo.
— E adesso? — chiese lui, sorridendo.
Guardai il soffitto affrescato, i palchi dorati, le poltrone vuote.
— Adesso so che posso tornare — dissi. — Qui o altrove. Non importa dove. Ma il palco tornerà a essere casa.
Mi baciò proprio lì, al centro del Colón. Non c’era pubblico, ma per me non sarebbe potuto essere un momento più grande.
Sei mesi dopo, ero dietro le quinte del Teatro San Martín. Avevo scelto di ricominciare da lì, lontano dai fantasmi del Colón, ma abbastanza vicino al mondo che amavo.
Sistemavo l’ultimo dettaglio del costume quando il telefono vibrò. Un messaggio di una delle altre donne che avevano denunciato Diego:
“Stasera siamo tutte con te. Grazie per averci mostrato che si può ricominciare.”
Sorrisi. In platea, attraverso una fessura, vedevo Santiago seduto accanto a Eduardo e Carmen. I miei alleati, la mia nuova famiglia.
L’orchestra attaccò il primo brano. Respirai a fondo, posai la mano sul sipario e feci il primo passo sul palco.
La luce mi investì. Per un istante il cuore ebbe un sussulto… poi tutto tornò al suo posto. E capii: ero davvero tornata a casa.
Ti è mai successo di sentirti bloccato in un capitolo della tua vita che non sopporti più, ma che hai paura di chiudere? Di restare fermo a una pagina dolorosa perché non sai cosa ti aspetta nella prossima?
La storia di Valentina mi ha fatto pensare a quante volte permettiamo alla paura di scegliere al posto nostro. A quanti balli non iniziamo perché siamo convinti di non meritare la musica. A quante persone allontaniamo perché crediamo di essere rotti, sbagliati, irrimediabilmente segnati.
A volte il coraggio non è un gesto eroico o un urlo di battaglia. A volte è solo un sussurro che dice: “Ci riprovo”. È la mano che accetti quando qualcuno ti tende il braccio in pista, anche se hai il terrore di inciampare. È la decisione di non lasciare che ciò che ti hanno fatto definisca chi sei.
Valentina non era solo una vittima. Era una donna che, dopo essere crollata, ha scelto di rialzarsi… ballando. E forse, in fondo, è questo che possiamo fare tutti: quando la vita ci butta a terra, imparare a rialzarci al ritmo del nostro tango, passo dopo passo, finché la paura non diventa solo una musica lontana.