Una maestra, sola, accolse due gemelli lasciati al mondo e li accompagnò fino ai banchi di un ateneo d’élite. Ventidue anni dopo, però, l’attendeva un finale che fa male.

La signora Hanh insegnava letteratura in una cittadina quieta. Dopo la morte dei genitori viveva da sola, convinta che quella solitudine ordinata le bastasse: classi da seguire, quaderni da correggere, libri sottolineati e pomeriggi tiepidi a guardare il cortile della scuola dove i flamboyant incendiavano l’aria con i loro fiori rossi.

Fu in una mattina d’inverno, tornando dal mercato e costeggiando la vecchia pagoda, che udì un vagito quasi inghiottito dal vento. Dietro un groviglio di bambù trovò due neonati maschi, stretti in una stoffa lisa. Accanto, una borsa di tela con qualche vestito consumato e un biglietto scarno:
«Se qualcuno è abbastanza gentile, si prenda cura di loro. Non possiamo. Ci dispiace.»

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Non chiamò nessuno. Non chiese permesso. Li prese tra le braccia e li portò a casa come si riporta a riva ciò che il fiume sta per trascinare via. Li battezzò Minh e Phuc: nomi di luce e di quiete, il destino che desiderava per loro.

Da quel giorno la vita si fece più stretta. Lo stipendio da insegnante non bastava: Hanh recuperò ore di ripetizioni, copiò a macchina verbali per l’ufficio scolastico, la sera vendeva dolci fatti in casa. Dormiva poco e di corsa, ma non la si sentì mai lamentarsi. Quando Minh bruciava di febbre e Phuc chiamava “mamma” nel mezzo della notte, lei li cullava piano:
«Sono qui. Sono io, Hanh. Non vi lascerà nessuno.»

Gli anni presero il loro passo. Minh aveva una testa rapida per i numeri; Phuc si perdeva nei colori e nei fogli. Erano ragazzi educati, grati, e studiavano con ostinazione. Mancavano documenti, registri, firme; Hanh bussò a porte, spiegò, insistette, finché riuscì a farli iscrivere come tutti gli altri. Ogni piccolo timbro fu una vittoria.

Al termine delle superiori arrivò il traguardo: Minh fu ammesso all’Università di Scienza e Tecnologia, Phuc all’Università di Architettura. La gioia si mescolò a un pensiero che le pungeva il cuore: «Ad Hanoi sarete soli. Abbiatene cura.»

Partirono. Le prime settimane telefonavano ogni domenica. Poi le chiamate si fecero rare, sostituite da messaggi rapidi per le feste e il Capodanno. «Sono grandi, sono presi con gli esami,» si diceva Hanh, apparecchiando per uno invece che per tre.

Non sapeva che, un pomeriggio di pioggia, un uomo alto in giacca scura si era seduto su una panchina del parco, con lo sguardo fisso alla finestra del secondo piano. Dietro le tende consunte si intravedevano i coni di luce delle vecchie lampade da studio. L’uomo scattò una foto, poi sussurrò al telefono: «Li ho trovati. Sono vivi. Li ha cresciuti lei.»

A settembre, all’uscita della scuola, due sconosciuti la aspettavano accanto al cancello. Le porsero una busta e una fotografia ingiallita.
«Siamo i genitori biologici di Minh e Phuc. Siamo venuti a riprenderli e a far valere i nostri diritti.»

Hanh sentì il mondo ritrarsi, come se qualcuno avesse chiuso una porta alle sue spalle. «Voi li avete lasciati. Io li ho cresciuti dal primo respiro,» mormorò.
La donna abbassò gli occhi. L’uomo, con voce ferma: «Allora eravamo poveri, non potevamo mantenerli. Oggi possiamo. Sono nostri. La legge ci riconoscerà.»

Se ne andarono lasciando un modulo per il test del DNA.

Una settimana dopo, Minh e Phuc rientrarono a casa per la prima volta dopo mesi. Lei li strinse come per fermare il tempo, ma le loro braccia rimasero lungo i fianchi, gli sguardi sfuggenti.
«Mamma… sono i nostri genitori. Ci vogliono con loro. Anche per loro è stato duro.»

Hanh tacque. Ripensò alle borse di studio chieste con la schiena curva, alle divise rattoppate a luce tarda, alle attese davanti ai cancelli dell’università solo per un cenno dalla distanza. Tutto quello, in un attimo, le parve appartenere a un passato che non aveva più un posto in casa.

Due mesi dopo, il tribunale diede ragione ai genitori biologici. Ai gemelli fu restituito il cognome d’origine, vennero aggiornate le registrazioni, il trasferimento fu ufficiale.

Nessun saluto. Nessun abbraccio. Nemmeno un cenno dalla soglia.

Quando l’inverno tornò a graffiare i vetri, Hanh riaprì una scatola di legno. Ne estrasse foto che avevano il profumo di carta vecchia: il terzo compleanno con una torta sbilenca; i tre curvi sullo stesso banco, il gomito di lei che sfiora quello di Minh; la processione delle lanterne alla Festa di Metà Autunno, le luci tremolanti come lucciole. L’ultima immagine l’aveva fatta scattare a un fotografo all’ultimo momento: lei, in fondo alla platea, immobile, mentre loro, in toga e tocco, ricevevano il diploma. Stava lontana per non disturbarli, eppure non li aveva mai sentiti così distanti.

«Forse essere madre non è questione di sangue,» pensò. «È continuare a dare senza chiedere indietro.»

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Richiuse piano la scatola. Fuori, i primi fiocchi cominciarono a cadere. Dentro, l’inverno era arrivato da tempo, ma non era gelo: era un silenzio che conteneva tutto l’amore che restava, messo da parte come una sciarpa calda per chi, un giorno, dovesse averne bisogno.

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