Costretto a un matrimonio combinato per salvare l’azienda di famiglia, credevo che l’unico imbarazzo della prima notte sarebbe stato un silenzio forzato o qualche frase di circostanza. Invece Adriana, con un sorriso glaciale, mi fissò e disse: «Da ora in avanti farai tutto ciò che ti ordino». Non era uno scherzo. Era l’inizio di un gioco di potere in cui rifiutarmi avrebbe significato condannare la mia famiglia alla rovina.
Le parole di mio padre mi tornarono in mente come macigni: «Figlio mio, non avrei mai chiesto questo sacrificio se ci fosse stata un’altra via d’uscita».
Avevo cercato di ribellarmi: «Vuoi davvero che sposi una donna che non conosco per salvare la tua azienda?» Ma lui, con lo sguardo cupo, aveva risposto: «Adriana è la figlia di Victor. L’unione con la sua famiglia è l’unica cosa che può salvarci».
Ero diventato una pedina. Un principe medievale messo all’asta per un patto commerciale.
Nonostante la rabbia, finii per cedere. Quando conobbi Adriana, rimasi sorpreso: era brillante, seducente, con uno sguardo capace di scavarti dentro. Mi disarmò, tanto che mi convinsi a dire sì.
Il matrimonio, però, non fu un’unione, ma un contratto. I voti suonavano come clausole, il bacio come una firma.
E, nella suite presidenziale, iniziò la mia prigionia.
Adriana mi guardò negli occhi e ripeté: «D’ora in poi farai tutto quello che ti chiedo». Pensai a una battuta. Ma quando mi ordinò di andare a piedi, quasi a mezzanotte, a prendere un hamburger a tre chilometri di distanza, capii che non scherzava.
Ogni giorno diventai il suo servitore: svegliarla col caffè, lucidarle le scarpe, lavarle l’auto, perfino massaggiarle i piedi. Non ero un marito, ero un accessorio.
«Perché lo fai?» le chiesi una sera. Lei rise: «Perché posso».
Ma ciò che lei non capì fu che, con ogni ordine, mi mostrava i suoi punti deboli. Io ascoltavo, osservavo, registravo. Letteralmente. In due settimane avevo ore di filmati che la ritraevano mentre mi umiliava e minacciava la mia famiglia.
Quando finalmente dissi «No», lei tentò di farmi crollare chiamando suo padre. Non sapeva che i video erano già arrivati a lui.
«Adriana, basta», tuonò l’uomo al telefono. «Il matrimonio finisce qui, ma l’accordo commerciale resta».
Sotto shock, mi fissò: «Mi hai spiata?»
«Ogni minuto», replicai.
Da quel giorno i ruoli si invertirono. Per due settimane fu lei a eseguire i miei ordini, con i denti serrati. Poi, quando i miei avvocati ebbero preparato i documenti, li lasciai sul tavolo della cucina.
«Cos’è questo?» domandò incredula.
«Il divorzio», risposi. «La nostra farsa finisce qui».
Cercò di ribellarsi, ma non aveva più armi. Firmò.
Poco dopo pubblicò il suo messaggio perfetto su Instagram: «Dopo attenta riflessione, James e io abbiamo deciso di separarci, restando uniti solo dagli interessi delle nostre famiglie».
La porta si chiuse alle sue spalle. E io, finalmente libero, respirai a pieni polmoni. Nessun contratto, nessun impero, nessun affare valeva il prezzo della mia libertà.