Correndo al lavoro, la donna delle pulizie trovò un cesto con dentro un neonato. Chi avrebbe mai pensato che quel bambino…

Elvira non amava pensare a quel luogo, ma i muri grigi e statali dell’orfanotrofio, il cortile tetro e sporco, le altalene e le panchine consunte non sarebbero mai stati dimenticati. Come molti bambini cresciuti lì, non conosceva i suoi genitori; nessuno era mai venuto a prenderla. Da neonata, a soli tre o quattro mesi, era stata lasciata ai cancelli. Così la ragazza era cresciuta senza affetto materno, sempre insolitamente pensierosa, senza giocare molto con i coetanei, per lo più isolata, distante da tutti. Amava osservare la natura e si era affezionata in modo particolare a un gattino che, chissà come, si era intrufolato nel refettorio. Lo nutriva, lo accarezzava, se ne prendeva cura come se vi riconoscesse un legame, qualcosa di suo.

Si dedicava anche agli studi, eccellendo a scuola, curiosa e appassionata di lettura. La matematica e le scienze le venivano naturali: sapeva calcolare a mente numeri complessi e risolvere persino equazioni difficili! Gli insegnanti restavano stupiti delle sue capacità, la lodavano, le fornivano libri e rompicapi sempre nuovi.

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Elvira non amava gli scherzi sciocchi, le battute frivole o il prendere in giro gli altri, e per questo non era benvoluta. Sognava di crescere in fretta ed evadere verso la libertà, di fuggire dalla provincia per raggiungere un luogo ricco di opportunità e di vita interessante. All’esterno ricordava un’eroina turgeneviana: silenziosa, modesta, con una lunga treccia bionda quasi fino alla vita e tristi occhi grigi. Gli adolescenti più sfrontati, che già avevano abbandonato la scuola e provato sigarette e persino alcol, la tormentavano senza pietà. Sentiva solo: «Secchiona! Noiosa! Pensi di studiare e diventare milionaria? Illusa! A chi importa di noi? Perché impegnarsi?» Elvira spesso piangeva, soffocata dal rancore, ma nonostante tutte le difficoltà e privazioni completò con successo la scuola dell’orfanotrofio, ottenendo persino un attestato di eccellenza. Le sembrava che tutte le strade, tutti i sentieri le fossero ormai aperti.

Elvira si trasferì in una metropoli piena di speranza. Aveva già deciso da tempo che avrebbe conseguito un’istruzione superiore, così si iscrisse alla facoltà per corrispondenza di economia e, dopo aver superato gli esami, fu ammessa a spese dello Stato! Ma per mantenersi aveva bisogno di un lavoro. Bussò a molte porte sperando in un buon impiego, ma senza diploma né esperienza nessuno la voleva. Alla fine, rispondendo a un annuncio, riuscì a malapena a farsi assumere in un ufficio, ma solo come addetta alle pulizie. Non era certo il lavoro dei suoi sogni e la delusione fu grande, ma non aveva scelta. Sperava che col tempo, una volta terminati gli studi, qualcuno l’avrebbe notata e le avrebbe offerto una posizione migliore: l’importante era mettere radici.

Il gruppo di lavoro non era affiatato né cordiale; tutti spiavano e spettegolavano alle spalle degli altri. Gli impiegati guardavano Elvira con freddezza: giovane, carina, già appariva come una minaccia, e in più frequentava l’università. Anche a lei non piaceva quell’ambiente, ma non aveva alternative: in quel momento i soldi contavano più di tutto. Poi il vicedirettore aggravò la situazione: per lui era essenziale avere un proprio informatore in ogni reparto. Tentò di coinvolgere Elvira, perché una donna delle pulizie poteva essere un’ottima spia, presente ovunque senza destare sospetti e capace di sentire e vedere molto. Ma la nuova assunta rifiutò categoricamente di fare la delatrice, provocando la rabbia di Boris Andreevič, che attendeva solo l’occasione per licenziarla.

La società era diretta da Vitalij Sergeevič, un uomo anziano, imponente, molto curato, sempre elegante, ma che per qualche ragione portava un ridicolo parrucchino! Evidentemente si vergognava della calvizie e pensava che lo ringiovanisse. I dipendenti ridevano alle sue spalle, perché in realtà appariva comico. Spesso, nell’area fumatori, commentavano anche che non sopportava suo figlio Roman, trovava sempre pretesti per criticarlo, e che si sottoponeva a manicure e maschere ringiovanenti, il che diventava ulteriore oggetto di scherno.

Elvira soffriva terribilmente di solitudine: in quella città immensa non aveva nessuno con cui confidarsi, nessuno che potesse aiutarla o confortarla. Desiderava ardentemente ritrovare i suoi genitori, guardarli negli occhi, capire perché l’avessero abbandonata. Ci doveva essere un motivo. In fondo, i genitori non abbandonano i figli senza ragione… Ogni tanto chiamava o scriveva al direttore del suo orfanotrofio, Fëdor Petrovič, con cui aveva mantenuto un rapporto affettuoso, supplicandolo di aiutarla a rintracciare qualche traccia.

Un giorno, mentre si dirigeva al lavoro e in azienda erano previste importanti trattative, Elvira sentì il pianto di un neonato vicino alla fermata. Guardando in quella direzione notò un cesto. Avvicinandosi, vide un neonato che si agitava nelle fasce. Le mancò il respiro: «Dov’è la madre? Non c’è nessuno! Forse è stato abbandonato? Che orrore!»

Senza esitare, prese il bambino e corse al lavoro. Non poteva lasciarlo lì! Le faceva troppa pena. Subito le tornò alla mente il suo stesso abbandono ai cancelli dell’orfanotrofio! Ma quello almeno era un rifugio, mentre lasciare la propria creatura a una fermata era, ai suoi occhi, un atto barbaro, inconcepibile.

Il guardiano all’ingresso fischiò sorpreso alla vista, ma la lasciò passare, borbottando tra sé:«Non era mai successo prima, portare neonati allattati al seno al lavoro! Un manicomio! Se il capo lo scopre, siamo tutti nei guai! Ma va’ avanti, povera creatura, passa in fretta, magari non se ne accorgeranno!»

Proprio allora, come per dispetto, il bambino iniziò a piangere forte. Elvira andò nel panico e non sapeva come calmarlo. Il piccolo aveva chiaramente fame ed era infreddolito. E in quel momento entrò nell’edificio proprio lui, l’antipatico Boris Andreevič! Era attesa un’intera delegazione per questioni di produzione e, vedendo la ragazza con un neonato piangente in braccio, letteralmente esplose:

«Questo è davvero troppo! Non solo non svolgi bene i tuoi compiti, lavori con superficialità, ma vieni pure con un bambino, hai trasformato l’ufficio in un asilo nido! Ma sei rimasta incinta forse? Ti licenzio subito, senza liquidazione!» urlò, paonazzo e schiumante di rabbia, puntando il dito contro il piccolo.

La spaventata Elvira non sapeva cosa dire, riuscì solo a balbettare spiegazioni confuse:

«Mi scusi, Boris Andreevič! Ha frainteso. Non è mio figlio. Non urli così, piange già e lo spaventa ancora di più! Ha bisogno di essere nutrito. Capisca, stavo andando al lavoro e l’ho trovato lì, vicino alla fermata dell’autobus, in un cesto, che piangeva. Tutto solo! E attorno non c’era nessuno! Che avrei dovuto fare, lasciarlo lì? Mi faceva troppa pena!»

Ma queste giustificazioni irritarono ancora di più il vice, che non si trattenne:

«Guardatela, mente pure! Non ti permettere di replicare! Che ragazza svergognata e sfacciata! E adesso dovrei occuparmi io del tuo marmocchio? Ti credi forse una Madre Teresa?»

Elvira era disperata, dondolava il bambino cercando di calmarlo mentre piangeva anche lei, senza sapere cosa fare! In quel momento comparve all’ingresso il proprietario della società. Aveva osservato la scena dalla telecamera di sorveglianza del suo ufficio e vide come il suo vice derideva e umiliava la povera ragazza davanti a tutti. L’uomo fu talmente scioccato e indignato che si tolse perfino la parrucca per la rabbia. Decise di intervenire immediatamente e mettere fine a quell’autocrazia.

Con voce calma, che però non prometteva nulla di buono per il vice, Vitalij Sergeevič disse:

«Che cos’è questo, Boris? Perché ti comporti in modo tanto vergognoso con i dipendenti? Ti permetti di umiliare e insultare? Chi ti ha dato il diritto? Non vedi che si tratta di una situazione straordinaria, una forza maggiore! E soprattutto – è un bambino, ha bisogno di aiuto, subito, e tu invece te ne stai qui a bestemmiare!»

Guardò con calore paterno Elvira e poi il piccolo:

«Allora, dimmi, cos’è successo? Dove hai trovato il bambino?»

Elvira si calmò, smise di piangere e raccontò tutto: come e dove aveva trovato il neonato abbandonato. Alla fine aggiunse:

«Potete licenziarmi, ma non mi pento per un secondo di quello che ho fatto. Non è questo ciò a cui dobbiamo pensare adesso. Il bambino ha chiaramente fame e freddo. Non ho nulla con me per lui… Chi sa cos’è successo alla madre e perché lo abbia lasciato in mezzo alla strada? Forse le è capitata una disgrazia? Nella vita può succedere di tutto! Si vede che è nato da poco, nemmeno un mese! Cosa facciamo? Mi fa una pena infinita! Una creaturina così piccola, già rifiutata, proprio come lo sono stata io!»

Quelle emozioni sincere toccarono profondamente i presenti. Gli occhi di Vitalij Sergeevič si inumidirono di commozione!

Senza perdere tempo, ordinò al capo della sicurezza di portare subito il bambino in un asilo nido e di acquistare tutto il necessario per il momento. Elvira si sentiva spezzare il cuore nel separarsi da quel piccolo fagotto; con dolore lo consegnò, salutandolo con la mano e pensando: «Ti auguro che la tua mamma ti ritrovi, piccolo! Sii felice!»

Dopo quell’episodio, con gioia di tutti, il vice dispotico fu trasferito in una filiale periferica. Tutti i colleghi compresero che si trattava di un vero esilio: ora lo aspettavano giornate dure, senza weekend. Pochi lo compiansero, dato che aveva sempre seminato discordia fra i dipendenti. Con la sua partenza, si respirò un sollievo generale e lavorare divenne moralmente più facile.

Il direttore non dimenticò il trovatello e, grazie alle sue conoscenze in polizia, rintracciò la madre. Quando seppe chi fosse, quasi gli mancò il fiato! Era incredibile: il bambino era stato abbandonato da Alisa, la fidanzata di suo figlio Roman! … «Sorellina! Smettila di preoccuparti e ricontrollare tutto. La tavola trabocca di antipasti, i musicisti si stanno impegnando al massimo e tutti si stanno divertendo! Va tutto bene! Rilassati! Vieni a conoscere il mio migliore amico, Nikita! Tra l’altro, si è già preso una cotta per te! Quindi raggiungici, altrimenti perdi l’occasione!»

Elvira rise e salutò il giovane! Lui la guardava con tale intensità che lei sentì come un’ondata di calore attraversarla dall’interno! Nikita le piacque davvero tanto! Era allegro e brillante, la invitò a ballare, la riempì di complimenti e non si staccò da lei per tutta la sera!

Quando gli invitati se ne furono andati e il ristorante chiuse, Nikita chiamò un taxi e si offrì di accompagnare Elvira a casa! Lei non era affatto contraria e poi si attardarono al freddo davanti al suo palazzo, come due adolescenti incapaci di separarsi, finché Elvira decise:

«Nikita, vuoi salire a bere un tè caldo? C’è anche Černyš che mi aspetta, devo portarlo a fare una passeggiata!»

Nikita accettò con entusiasmo! Insieme portarono fuori il cane, poi bevvero tè con dolcetti e non smettevano di chiacchierare! Si salutarono solo al mattino presto; Elvira riuscì a dormire appena un paio d’ore, ma non se ne pentì affatto! Un sorriso non lasciava il suo viso: aveva voglia di ridere e cantare! Roman notò subito il cambiamento e la prese in giro:

«Carissima sorella, ti sei innamorata? Non ti ho mai vista così felice! Su, racconta.»

Elvira arrossì e sorrise sognante:

«Beh, onestamente, Nikita mi piace tantissimo! È fantastico! Con lui mi sento bene, a mio agio! Forse sì, sono innamorata! E allora?»

Roman divenne improvvisamente serio:

«Vedi, Nikita è un bravissimo ragazzo, ha un carattere d’oro, è onesto e gentile! Ma c’è un problema: non riesce a stare fermo, per questo viaggia per tutta la vita! Mi preoccupo per te: presto partirà per un’altra lunga spedizione geologica e tu piangerai sentendone la mancanza! Pensaci bene, vuoi davvero una relazione del genere? Sei pronta a questo?»

Elvira si rattristò e rispose piano:

«A dire il vero, Roma, non lo so! Ma so che non posso stare senza di lui! Vivremo e vedremo! Dai, torniamo al lavoro! Che investigatore che sei!»

Durante il giorno, la segretaria Elena bussò alla porta dell’ufficio di Elvira portando un enorme mazzo di rose! Con esso c’era un biglietto: “Alla più bella e desiderabile, la più dolce e preziosa, non c’è al mondo nessuna più bella di te, sii mia, Elvira!”

La ragazza si sciolse per tanta romanticità! Non solo fiori ma anche poesia! Che meraviglia! Poco dopo squillò il telefono:

«Pronto, hai ricevuto il mio regalino? Se non ti dispiace, vengo a prenderti alle sei, ho due biglietti per un concerto, ti prometto che sarà molto interessante!»

Elvira era al settimo cielo, il cuore le batteva forte! Accettò con gioia:

«Con piacere! Non vedo l’ora di trascorrere un’altra serata con un gentiluomo così interessante. I fiori e le poesie sono perfetti! Grazie, sono commossa! Ma c’è un problema: e Černyš? Deve uscire a passeggio e io non ho tempo!»

Nikita risolse subito la questione:

«Non preoccuparti, passo prima, mi dai le chiavi e lo porto io a fare una passeggiata! Così è deciso! Mi pare che gli piaccio già!»

Così cominciò la loro storia travolgente: Elvira e Nikita non si stancavano mai l’uno dell’altra, stavano benissimo insieme! Le vacanze di Capodanno passarono e giunse il momento della partenza di Nikita. Rimandava il più possibile e non disse nulla a Elvira, sapendo che lei si sarebbe disperata! Ma quando le valigie furono pronte, decise di parlarle:

«Elvira, amore mio! Domani mattina presto parto! Non voglio lasciarti, ma questo è il mio lavoro! Solo due mesi, torno a fine marzo e saremo di nuovo insieme!»

Elvira si alzò di scatto e rispose seccata:

«E me lo dici solo adesso? Pensavo fossimo seri! E il nostro futuro come lo vedi? Tu via per mesi, e io dovrei accontentarmi delle briciole della tua attenzione? Non è normale! No, non voglio una relazione così! Io voglio una vera famiglia, un figlio, come tutti! Se questo non è quello che vuoi, allora è meglio dirci addio subito! Addio!»

E corse fuori piangendo! Dentro ribolliva: «Così se l’è spassata e adesso se ne va? Sciocca io a innamorarmi! E Romka me l’aveva pure detto che sarebbe finita così! Che se ne vada pure in spedizione! Io vivrò senza di lui!»

Nikita era angosciato, cercò di chiamarla, ma Elvira ostinatamente non rispondeva, ferita nell’orgoglio e nel cuore. Così si separarono, in lite!

Lui era convinto di agire nel modo giusto: era un geologo, quella era la sua vocazione, il suo amato lavoro, la sua avventura! Come vivere senza? Ma col passare dei giorni e delle settimane nulla gli dava più gioia: né le canzoni al falò, né la ricerca di minerali. Il cuore gli doleva per lei, per la sua principessa dagli occhi grigi!

Elvira, per quanto si sforzasse, non riusciva a dimenticare il suo romantico geologo! Ricordava quelle rose e quei versi, e conservava quel biglietto come un talismano!

Roman, naturalmente, vedeva lo stato d’animo della sorella e cercava di consolarla:

«Non essere triste, sorellina! Mi fa male vederti così! Vi riappacificherete! Nikita è stato uno sciocco, io non avrei mai lasciato una bellezza come te! Che credi, che sia l’unico uomo al mondo? Vuoi che ti presenti un altro amico? O andiamo da qualche parte a distrarci?»

Elvira scoppiò improvvisamente in lacrime:

«Non voglio niente senza di lui, capisci? Io lo amo, e basta! Sono arrabbiata, ma non riesco a dimenticarlo! Sentivo che eravamo perfetti insieme! Non accadrà con nessun altro! Lascia perdere tutti! Dammi il tuo rapporto, lo controllo io!»

Nel weekend, Elvira e Roman andarono a trovare il padre per vedere come stavano tutti, soprattutto il piccolo Artiom, il beniamino della famiglia. Gli uomini si occuparono del barbecue, mentre Elvira e la moglie del direttore, Svetlana, preparavano la tavola. Il piccolo sgambettava felice nel girello con il suo nuovo giocattolo!

Tutto era pronto, e una folla irruppe in casa: Roman con il barbecue fumante, il padre con le salsicce, e dietro di loro Nikita, vestito da Babbo Natale, con barba vera e sacco in spalla!

Elvira restò senza fiato, non capiva come fosse possibile! Magia!

Gli uomini sorrisero maliziosi e si sedettero a tavola, e Nikita iniziò a voce alta:

«Ciao a tutti! Ecco i miei doni! Per lei, Svetlana Alekseevna, uno scialle di pizzo fatto a mano, per scaldarle le spalle nelle sere d’inverno! Per lei, Vitalij Sergeevič, una vera pipa di radica, so che le piacciono! Per te, amico mio Roma, una bottiglia da collezione di vino dell’Ottocento! Per te, monello, questa pistola giocattolo! E adesso il dono più importante, per la mia principessa!» Tirò fuori una scatolina dalla tasca, la aprì e la porse a Elvira: dentro c’era un anello di una bellezza indescrivibile! Il giovane, come si conviene, si inginocchiò e disse con passione:

«Elvira, confesso, mi sono comportato da sciocco, sparendo così! Solo lontano da te ho capito che senza di te nulla ha valore, nemmeno i miei viaggi e le mie spedizioni! Perdonami e sposami! Ti giuro che non ti lascerò mai più! Ammireremo insieme paesi lontani, in vacanza! Accetti?»

La ragazza era così felice che non riuscì a trattenersi: si gettò al collo di Nikita e scoppiò in lacrime! Lo baciò sulle guance ispide, che profumavano di gelo e di qualcosa di familiare, e sussurrò:

«Accetto! Ti amo da morire! Non posso stare senza di te! Non ti lascerò andare da nessuna parte, sallo!»

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Tutti si commossero, iniziarono a fare auguri agli sposi e a brindare alla loro felicità! La cena fu un successo! Nikita ormai faceva parte della loro grande famiglia! Elvira sedeva sognante accanto al camino, ascoltando gli uomini che suonavano allegre canzoni da falò alla chitarra, e si sentiva così serena! Pensava tra sé: «Tutto è iniziato con quel bambino trovato nel cesto! Grazie, Artiom! Se non fosse stato per quell’episodio, non avrei mai trovato la mia famiglia né conosciuto l’uomo più amato della mia vita! I miracoli esistono, ora lo so per certo!»

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