«A tuo fratello lasciamo l’appartamento, a tua sorella l’auto… e a te riserviamo l’onore di occuparti della nonna malata e di saldare tutte le bollette. Complimenti», disse mia madre.

«A Vadim va l’appartamento. A Sveta prendiamo una macchina.»

La voce di mia madre, Galina Petrovna, si insinuò nel soggiorno lenta e unta, come grasso caldo: ti avvolgeva e, senza che te ne accorgessi, ti spegneva la prontezza di reagire.

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Si fermò un istante apposta, per godersi l’effetto. Eravamo in tre davanti a lei: Vadim abbassò subito gli occhi sul telefono, come se lo schermo gli avesse appena salvato la vita. Sveta sollevò appena le labbra in un sorriso e mi cercò con lo sguardo.

In quel sorriso c’era la soddisfazione di chi ha già incassato.

«E tu, Kira…» continuò mamma, con un tono quasi solenne. «A te affidiamo la cosa più importante. La nonna è malata: te ne occupi tu. E paghi tutte le bollette. Tutte. Complimenti.»

La stanza si fece pesante. Non era solo una frase: era una decisione già timbrata, senza spazio per appelli. Mi guardò con il suo “sorriso da catalogo”, quello che usava quando stava per farti ingoiare qualcosa di amaro e pretendeva pure gratitudine.

Un sorriso che traduceva chiaramente: non discutere, è già stato stabilito per te.

Sollevai gli occhi piano. Sentii la lingua impastarsi.

«Ma… l’appartamento è della nonna.»

Sveta sbuffò, teatrale.

«E quindi? Alla nonna non serve un appartamento, ormai. Vadim deve mettere su famiglia. Non lo mandi mica a vivere sotto un ponte con Julia.»

La mia voce mi uscì strana, lontana, come se venisse da un’altra persona.

«E la macchina?»

«I soldi della dacia,» rispose Sveta con la nonchalance di chi parla del meteo, guardandosi le unghie. «Mamma e papà la vendono. Tanto tu quella dacia l’hai sempre detestata, no? Cercavi ogni occasione per scappare.»

Era vero. Odiavo quell’odore di terra bagnata e zanzare, quel caldo appiccicoso, quei filari infiniti. Ma in mezzo a quel posto c’era anche la nonna: noi due a raccogliere bacche, lei a raccontarmi della sua giovinezza, io a ridere con le mani macchiate di succo.

Quelli erano i miei ricordi. E loro avevano appena messo un prezzo anche a quelli.

«Però… l’abbiamo sempre considerata una cosa di famiglia…» mormorai. Suonai patetica perfino a me stessa.

«Appunto!» intervenne mamma, e la sua voce diventò ancora più morbida, quasi mielosa. «Abbiamo fatto una distribuzione giusta. A ciascuno secondo necessità e capacità. Vadim ha bisogno di una casa. Sveta ha bisogno di muoversi, è sempre in giro. E tu… tu sei sempre stata quella responsabile.»

Lo disse come se mi stesse appuntando una medaglia. Solo che quella medaglia era di piombo, e mi trascinava giù.

Kira, la responsabile: quindi Kira farà. Kira resterà. Kira si arrangerà.

Guardai Vadim. Non alzò nemmeno il mento. Con il pollice scorreva e scorreva, rifugiato nella sua vigliaccheria abituale: sparire proprio quando bisognava prendersi una parte di peso.

«Abbiamo deciso così. È la cosa giusta.» Mamma mise un punto, soddisfatta, come se avesse chiuso una pratica.

Giusta. Avevano preso le basi materiali della mia vita, mi avevano lasciato il carico intero e lo chiamavano equità.

Mi alzai. Le gambe, molli.

«Devo andare dalla nonna. Ha le terapie.»

Nessuno mi fermò. Attraversai il corridoio sentendo addosso i loro sguardi: non colpevoli, no. Sollevati. Appagati. Avevano sistemato tutto in fretta e senza grida. Almeno dal loro lato.

All’ingresso, una foto della nonna in una cornice vecchia mi intercettò come una mano: lei giovane, forte, con quel sorriso pieno e testardo.

Loro la chiamavano fiducia. Io la sentivo come una condanna a vita.

La prima richiesta arrivò due giorni dopo.

Sul display: “Svetochka”.

«Ciao, Kir! Ascolta, faccio in un attimo…» attaccò lei, allegra e pressante. «Devo andare in officina a scegliere la vernice per l’auto. Mi presti un paio di migliaia? Ho già speso tutto per le pratiche.»

Appoggiai la fronte al vetro freddo della finestra. Mi stava chiedendo soldi per la vernice della macchina comprata vendendo un pezzo del mio passato.

«Sveta, io sto contando i centesimi. Le medicine della nonna costano un’enormità.»

Un secondo di silenzio.

«Dai, non ricominciare. Non è per sempre, te li restituisco. Siamo famiglia: ci si aiuta.»

Nella sua voce non c’era nemmeno un’ombra di imbarazzo. Solo fastidio, perché non avevo detto subito sì.

«Non posso.»

«Capito.» Fredda. Clic.

Un’ora dopo chiamò mamma. Niente giri di parole.

«Kira, perché fai la difficile con tua sorella? Per lei è un momento impegnativo: macchina nuova, mille cose da gestire.»

«Mamma, anche per me è un momento impegnativo. Ho una persona malata da accudire e bollette da pagare.»

«Non drammatizzare. Io e tuo padre vi aiutiamo come possiamo. E in ogni caso… pensavo ti facesse piacere per Sveta. Ti stai comportando da egoista.»

Come se fossi una bambina capricciosa che non vuole dividere un giocattolo. Solo che qui i “giocattoli” erano salute, dignità, vita quotidiana.

Il colpo vero mi aspettava il sabato.

Andai nell’appartamento della nonna per cucinare qualche pasto e sistemare la settimana. Aprii la porta e trovai Vadim e Julia: camminavano per le stanze con un metro in mano, discutendo animatamente.

«Oh, ciao, Kira,» disse Vadim senza nemmeno arrossire. «Stiamo valutando dove buttare giù una parete. Lei è Julia.»

Julia mi squadrò come un oggetto da spostare e sorrise, gentile in modo finto.

«È tutto così… vintage. Ma tranquilla, lo renderemo super scandinavo.»

Parlavano di ristrutturare la casa mentre la proprietaria era ancora viva. La casa di cui io stavo pagando le utenze.

«Che ci fate qui?» La mia voce mi si spezzò.

Vadim alzò una spalla.

«Mamma ci ha dato il permesso. Ha detto che a te non cambia niente tanto non ci vivi.»

Lo fissai. Quel viso pieno, comodo. Non vedeva alcun problema, perché per lui era normale. I problemi, nella sua testa, erano sempre di qualcun altro.

«Andate via. Subito.»

«Va bene, va bene… che ti prende?» fece lui, annoiato. «Tanto tra poco si trasloca.»

Quando la porta si chiuse, io mi sedetti come se mi avessero tolto le ossa. Non si erano presi solo un appartamento: stavano cancellando la nonna dalla sua stessa vita.

Quella sera rimasi ore sulle bollette: badante, farmaci, utenze del mio appartamento e del suo. La somma era indecente. Aprii l’app della banca: il saldo bastava a malapena fino allo stipendio.

Provai a parlare con papà. L’ultimo appiglio.

«Papà, non è giusto. Da sola non ce la faccio.»

Lui sospirò, senza staccare gli occhi dal giornale.

«Figlia mia, capisci tua madre. Vuole il meglio per tutti. Vadim è l’erede, deve avere un nido. Sveta è una ragazza, va aiutata. Tu sei forte. Tu ce la fai.»

Lo disse con orgoglio. E quel suo orgoglio mi ferì più delle parole di mamma. “Sei forte” era il loro modo elegante per lasciarmi sola.

Capìi che parlare non serviva. Avevano costruito una realtà in cui tutto era coerente. In quella realtà io ero il cavallo da tiro: non si ringrazia un cavallo, si mette il basto e via.

Il limite arrivò il mercoledì successivo.

Una settimana all’inferno: banca che chiamava per il ritardo della carta, la badante che scriveva che i medicinali stavano finendo, io con un lavoretto notturno, quattro ore di sonno e il cervello pieno di nebbia. A casa saltò pure l’impianto elettrico: restai senza luce perché non avevo soldi per l’elettricista.

A mezzogiorno, mamma telefonò con una voce troppo felice.

«Kirjòčka, ho un’ottima notizia! Abbiamo risolto il tuo problema di soldi.»

Rimasi immobile. Risolvere, per lei, significava sempre qualcosa che dovevo pagare io, in un modo o nell’altro.

«Abbiamo trovato una casa di riposo per la nonna. Statale. Dignitosissima, mi sono informata. E soprattutto… quasi gratis!»

Non risposi. Ogni parola cadeva dentro di me come un sasso.

«Immagina quanto risparmi!» cinguettava. «Niente più badante, niente più spese per il suo appartamento… Abbiamo già sistemato tutto: sabato la trasferiamo. Tu devi solo prepararle le cose. L’indispensabile.»

Come se stesse organizzando una vacanza in un centro benessere.

«Avete deciso voi… per me?» riuscii a dire, rauca.

«Certo. Tuo padre mi ha detto che ti pesa tutto. Noi vogliamo aiutarti, alleggerirti. Ecco la soluzione.»

Non era una soluzione. Era un esilio. E soprattutto era il modo perfetto per liberarsi dell’unico ostacolo rimasto tra Vadim e la sua “ristrutturazione”.

«Non sono d’accordo.»

La voce di mamma perse il miele e mostrò l’acciaio.

«Kira, non fare sciocchezze. È deciso. Tuo padre ha già dato un consenso preliminare come parente più prossimo.»

E lì, dentro di me, si spezzò qualcosa. La corda tesa della “figlia brava” smise di tirarmi indietro.

«No.» La mia voce uscì piatta, calma. «Non la porterete da nessuna parte.»

«E perché?» chiese lei, sinceramente stupita.

«Perché non ne avete diritto.»

Riagganciai.

Mi trovai davanti al vecchio comò della nonna senza pensarci. Tirai il cassetto basso, quello che faceva sempre resistenza. Sotto tovaglie ingiallite c’era una busta spessa.

Mi tornò alla mente un giorno di un anno prima: la nonna mi aveva chiamata in cucina, le mani già tremanti.

Kira… prendi. È per ogni evenienza. Tua madre è una brava donna, sì, ma vede gli averi, non le persone. Quando arriverà il momento, non dovrai proteggere la proprietà. Dovrai proteggere me. Tu sei sveglia, capirai.

Non l’avevo mai aperta. Per paura.

Dentro c’era un foglio piegato con cura: una procura generale intestata a me. Poteri completi su beni, conti e — soprattutto — decisioni mediche per la nonna. Autenticata dal notaio.

Loro credevano di avere tutte le carte: papà “parente più prossimo”, mamma “organizzatrice”, io “esecutrice”.

E invece avevo un asso.

Presi il telefono. Le dita, per la prima volta, non tremavano.

Chiamai un avvocato di diritto di famiglia che tenevo salvato “per ogni evenienza”.

«Buongiorno. Mi chiamo Kira Voronova. Ho una procura generale. Devo impedire a terzi — sì, i miei parenti stretti — di prendere decisioni sulla mia assistita e sui suoi beni. Mi serve un intervento urgente.»

Il sabato arrivarono come se fosse un trasloco qualsiasi, quasi allegro.

Mamma, papà e Vadim. Sicuri. Convinti della loro ragione. Li aspettavo: la porta era aperta.

«Brava, hai capito,» disse mia madre appena oltre la soglia, guardandosi intorno. «Dov’è la roba? Abbiamo chiamato il furgone.»

«Non ci sarà nessun furgone.»

Mi venne addosso, un’ombra sul volto.

«Come sarebbe?»

Le consegnai una copia della procura. Mamma lesse. La sua espressione cambiò a scatti: sicurezza, confusione, poi rabbia.

«Che cos’è questa carta?»

Alle mie spalle, una voce maschile, ferma.

«È un documento valido, signora,» disse l’avvocato, Igor Sergeevič, uscendo dalla stanza. «In base a questo, l’unica rappresentante legale di Zinaida Arkad’evna è la mia assistita, Kira Andreevna. Qualsiasi azione da parte vostra senza consenso costituirà un illecito.»

Vadim strappò il foglio dalle mani di mamma.

«Ma… l’appartamento… doveva…»

«L’appartamento è della nonna,» dissi io, tagliando corto. «E io, come sua rappresentante, ritengo che le condizioni attuali e le pressioni intorno a lei non siano accettabili.»

Papà mi guardò come se avessi tradito una legge sacra.

«Figlia… ma che fai? Siamo una famiglia.»

«Famiglia?» lo fissai. «Famiglia è prendersi cura gli uni degli altri. Non scaricare il più fragile in un ricovero per spartirsi ciò che ha.»

Mamma diventò paonazza.

«Come ti permetti? Io ti ho dato la vita!»

«E te ne sarò sempre grata. Ma questo non ti dà il diritto di rovinare la mia. Avete scelto voi: a Vadim la casa, a Sveta l’auto, a me la fatica. Bene: la prendo. Ma la gestisco io, per proteggerla. Non per facilitarvi.»

Feci una pausa. Era il momento di dire la frase che li avrebbe fatti impazzire.

«Da oggi non avrete accesso alla nonna né alle sue finanze. L’appartamento verrà venduto quando sarà opportuno e in modo legale. Con quel denaro garantirò alla nonna una struttura privata di qualità e assistenza continuativa.»

«Non puoi!» esplose Vadim.

«Posso. E lo farò.» Mi voltai verso la porta. «Ora uscite. Se restate, chiamo la polizia.»

Mi guardarono come se fossi diventata un’altra persona. Forse lo ero davvero. La “Kira forte” comoda a tutti, quella che sopportava e basta, era finita.

Se ne andarono sbattendo la porta. Papà si voltò un’ultima volta: negli occhi aveva qualcosa che assomigliava al rimorso. Ma il rimorso non ripaga le notti senza sonno, né la dignità calpestata.

Epilogo

Sono passati due anni.

Sono seduta nel mio piccolo monolocale — piccolo, sì, ma mio — con una finestra grande sul cortile silenzioso. L’odore della pittura dei lavori fatti di recente non è del tutto sparito: li ho fatti io, un po’ alla volta, come si ricostruisce anche la testa.

Tutto qui dentro è stato scelto da me. Ogni lampada, ogni mensola. È la mia fortezza.

La nonna se n’è andata sei mesi fa, nel sonno, nella sua stanza. Gli ultimi diciotto mesi li ha vissuti con cura vera, pulita: assistenza, rispetto, pace. Nei momenti lucidi mi riconosceva, mi stringeva la mano e sorrideva. Mi bastava.

Dopo il cambio di numero, la mia “vecchia famiglia” è sparita per un po’. Ma le voci, le notizie, arrivano lo stesso.

La macchina di Sveta è durata poco: rate, manutenzione, spese. Alla fine l’ha venduta per una cifra ridicola e ora prende la metro, lamentandosi di quanto la vita sia ingiusta.

Vadim non ha mai sposato Julia. Quando ha capito che non c’era nessun appartamento gratis e che lo aspettavano un mutuo e responsabilità vere, il grande amore è evaporato.

È tornato a casa dei genitori, nella sua cameretta di sempre. Il “nido” è rimasto un sogno.

E i miei genitori? Peggio di tutti: si sono ritrovati con due adulti insoddisfatti e il rancore che galleggia in cucina a ogni pasto.

Poi, un giorno, un numero sconosciuto.

Lo guardai a lungo. Risposi.

«Kira?» La voce di papà era più bassa, più vecchia. «Io… so che non ho diritto di chiamarti. Tra poco è il compleanno importante di tua madre. Verresti? Lei… lei sarebbe felice.»

In quel tono non c’era più la superiorità tranquilla di prima. Solo stanchezza. E una speranza disperata di ricucire qualcosa che avevano strappato loro.

Mi immaginai la scena: tavola apparecchiata, sorrisi tirati, Sveta che mi misura, Vadim che finge di non esserci, mamma che recita la parte della regina del focolare. Non erano cambiati: volevano soltanto riportarmi nel mio vecchio ruolo, quello comodo.

«No, papà.» Parlai senza rabbia. «Non verrò.»

Silenzio dall’altra parte.

«Ci manchi… siamo pur sempre famiglia.»

«Quella famiglia ha scelto due anni fa.» La mia voce rimase ferma. «Io rispetto la vostra scelta. Ora voi rispettate la mia vita.»

Chiusi la chiamata con calma. Bloccai il numero. Non provai dolore, né rimpianto.

Solo una certezza limpida: il mio mondo non gira più attorno ai loro bisogni.

Tornai alle fotografie. In una, la nonna giovane tiene in braccio me bambina. Siamo due facce felici, senza paura.

Sorrisi.

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Avevo salvato ciò che contava davvero: lei, la memoria… e me stessa.

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