«La tua famiglia non vale niente, un branco di straccioni con le tasche vuote e i vestiti logori!» sputò Oleg, stringendo il telecomando come fosse un’arma. Ogni clic era un colpo secco, il suo modo di scaricare la rabbia sul mondo.
Io, in piedi vicino al tavolo, disponevo i piatti con la precisione di chi costruisce una difesa invisibile. Dentro, contavo mentalmente: uno, due, tre… otto. Otto anni di matrimonio. Non un semplice numero: otto anni di sopportazione, di silenzi, di pazienza bruciata come carta sul fuoco. Otto anni a trasformare gli insulti in finti sorrisi.
«E quella tua zia Sofia?» continuò, senza neppure distogliere lo sguardo dallo schermo pieno di pubblicità lampeggianti. «Arriva sempre con la sua tortina comprata al discount, come fosse un dono prezioso. Una donna che passa le giornate a limare unghie nel suo buco di salone fuori città! Ridicola.»
Le unghie mi segnavano i palmi, tanto stringevo i pugni. Ogni parola era una lama nel cuore. Eppure tacevo. Da anni ero diventata invisibile dentro le mura di casa mia.
Poi, dal corridoio, arrivò una ventata di vita: i passi veloci dei bambini. Kirill, dieci anni, e la piccola Alice, le guance rosse per il freddo, rientravano ridendo. Per un attimo respirai.
«Papà!» gridò Alice, mostrando un disegno. «Guarda, ho fatto la zia Sonia e me!»
Sul foglio, due figure semplici ma luminose: una donna dai capelli grigi e una bambina in cappotto rosa, unite da un sole enorme che sembrava splendere davvero nella stanza.
«Bravo…» mormorò Oleg senza nemmeno alzare gli occhi. «Ma piantala con queste vecchiette. Disegna me, o meglio la macchina nuova che comprerò quando diventerò capo reparto.»
Il sorriso di Alice si spense all’istante. Sentii un nodo in gola: non solo per lei, ma per me stessa, per l’impotenza che ci imprigionava entrambi.
«È bellissimo, tesoro» intervenni in fretta, baciandola sulla testa. «Lo appendiamo al frigorifero, così tutti lo vedono.»
Kirill, già troppo adulto per la sua età, buttò l’occhio sulla pentola sul fornello.
«Mamma, cosa c’è per cena?»
«Il solito cibo da ospizio!» rise Oleg con cattiveria. «Pollo bollito, verdure sciape… altro che famiglia normale.»
«È sano» risposi, stringendo i denti. «E ci fa risparmiare.»
«Risparmiare!» urlò lui. «Perché tuo padre è un incapace e tua zia ci regala solo robaccia!»
I bambini tacquero. Kirill mi guardò con occhi troppo lucidi: mi chiedeva perché stavo ancora zitta.
Posai con forza l’insalatiera. I pomodori saltarono sulla tovaglia, macchiandola di rosso.
«Oleg, basta.»
Lui scattò: «Basta cosa? Dire la verità? Bambini, ascoltate: se non volete finire poveri come la famiglia di vostra madre, smettete di sognare e imparate a fare soldi!»
Incrociai lo sguardo di Kirill. Non era più quello di un bambino, ma di chi ha già capito troppo. E in quell’attimo la vergogna mi travolse: non per la mia famiglia, non per zia Sonia, ma per il mio silenzio.
Poi, come un segno, vibrò il telefono nel grembiule: un messaggio di zia.
«Tesoro, vieni domani. Dobbiamo parlare.»
Non sapevo che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei vista viva.