«Mamma, vuoi conoscere la tua copia?» — Con quella frase, la mia bimba di cinque anni ha svelato un segreto per cui non ero preparata.

Quando la mia bambina di cinque anni ha cominciato a parlare di un misterioso “clone”, ho cercato di riderci su. Mi chiamo Emily, e quella che stai per leggere è la storia di come una telecamera nascosta e una voce dolce in un’altra lingua hanno riportato alla luce un segreto sepolto fin dalla nascita. È un racconto di maternità, identità e di una famiglia che non sapevo di aver perduto.

Quel giorno tornai dal lavoro svuotata in quel modo che solo una madre capisce: un peso che si accumula negli occhi anche mentre provi a sorridere. Mi tolsi i tacchi, mi versai un succo e, prima ancora di toccare il divano, sentii una piccola mano che mi tirava la manica.

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— Mamma — disse Lily, con lo sguardo teso e serio — vuoi incontrare il tuo clone?

— Il mio… cosa? — balbettai. A cinque anni sapeva davvero cos’era un clone?

— Il tuo clone — ripeté, come fosse la cosa più normale del mondo. — Viene quando sei al lavoro. Papà dice che così non mi manchi troppo.

Sorrisi in modo incerto, quella risata leggera che usiamo quando i bambini dicono cose strane e non sappiamo se preoccuparci. Ma nel suo tono, così sicuro e naturale, c’era qualcosa che mi gelò la schiena. Non sembrava un’amica immaginaria.

Da sei mesi Jason, mio marito, era in congedo parentale. Dopo la mia promozione avevamo deciso che sarei rientrata a tempo pieno e lui sarebbe rimasto con Lily. Aveva senso: Jason è paziente, giocoso, presente. Eppure, recentemente, qualcosa stonava. Mi ripetevo che era solo stanchezza. Poi Lily aggiungeva frasi che non aiutavano.

— Il tuo gemello mi ha messa a letto ieri pomeriggio.
— Quando hai letto la storia dell’orso e dell’ape, la tua voce suonava diversa.
— Stamattina avevi i ricci più morbidi, mamma. Che ti è successo?

Attribuivo tutto alla fantasia vivace di Lily, anche se ogni fibra del mio corpo mi chiedeva di non farlo. Jason sorrideva: «Sai com’è, i bambini…»

Una sera, pettinando Lily dopo cena, lei si voltò con naturalezza:

— Mamma, lei viene sempre prima del pisolino. A volte entrano in camera e chiudono la porta.

— “Loro”? — chiesi, mantenendo la voce calma. — Chi?

— Papà e il tuo clone!

La mia mano restò sospesa a mezz’aria.

— Ti dicono di non entrare?

— Una volta ho sbirciato — annuì. — Papà sembrava piangere. Lei lo abbracciava. Poi diceva qualcosa in una lingua diversa.

Una lingua diversa? Il cuore mi picchiava in gola.

Quella notte, quando Lily si addormentò, restai al buio in cucina davanti a un piatto intatto. L’appetito era sparito, la mente correva in cerchio attorno a un’unica domanda: e se non fosse fantasia?

La mattina seguente, con la luce che filtrava dalla tenda, ripescai la vecchia babycam da uno scatolone. Da quando Jason era a casa, non ci servivano più né tata né telecamera. Con le mani tremanti sistemai i cavi, controllai che funzionasse e la nascosi sulla libreria della nostra camera, con un angolo perfetto. Scrissi al lavoro che avrei preso il pomeriggio libero. Mentii, e non me ne importò.

Poco dopo mezzogiorno mi accomodai alla biblioteca comunale. Aprii il feed sul portatile, indossai le cuffie. Stavo quasi per perdermi in un ricordo di me e Jason ragazzi — mani intrecciate, un sorriso facile — quando sullo schermo si mosse qualcosa.

Una donna entrò nella nostra camera come se fosse casa sua. Capelli un po’ più lunghi dei miei, pelle appena più scura. Ma il volto… il volto era il mio.

Attesi un glitch, una distorsione che desse un senso a quell’immagine. Nulla. La bocca mi si seccò. Chiusi il laptop, guidai a casa, parcheggiai a un isolato e rientrai dal retro in punta di piedi.

Dal soggiorno arrivavano risatine e una voce femminile che parlava in spagnolo. Avanzai piano. Jason era in piedi con Lily per mano, gli occhi lucidi non di sonno ma di pianto. Accanto a lui, la donna dello schermo.

Il mio “clone”. La mia gemella. La mia… qualcosa. Sembrava me in un’altra vita: più snella, più solare, un po’ scomposta. Non un’impostora. Qualcos’altro.

— Mamma! — esclamò Lily — Sorpresa! Sei tornata prima! Non è bellissima? Il tuo clone!

La donna fece un passo, le lacrime agli occhi.

— Mi dispiace, Emily… non volevo spaventarti. Ho aspettato questo momento per tutta la vita.

La sua voce aveva un accento argentino, dolce. L’inglese perfetto, ma con quella musica sotto.

Jason parlò piano, come temendo di rompere qualcosa:

— Lei è Camila. È tua sorella gemella.

Le ginocchia mi cedettero, mi sedetti sul divano. Il corpo prima si ghiacciò, poi si intorpidì, infine bruciò. “Sorella gemella” era una fune tesa su un vuoto di anni.

Jason s’inginocchiò accanto a me.

— Mi ha scritto due mesi fa, tramite un registro internazionale di adozioni. Ti cerca da anni. Non voleva travolgerti. Ha contattato prima me… era spaventata. Anch’io. Volevo dirtelo l’altra sera, poi ho perso il coraggio. Temevo di ferirti.

Mi raccontò dell’ospedale in campagna, dei documenti confusi, dell’adozione in Argentina. Camila era cresciuta con una famiglia che l’aveva amata, aveva studiato, imparato due lingue, sapendo da sempre che da qualche parte c’era una sorella. Mi aveva trovata grazie a una mia foto uscita durante una raccolta fondi: «Ti ho riconosciuta dagli occhi», mormorò.

Guardai Jason davvero: gli occhi rossi, la voce che tremava appena. Aveva portato quel peso sul petto per settimane, aiutando Camila a incontrare Lily, cercando di proteggere tutti, come se uno sbaglio potesse far crollare il castello.

Quella notte in cui Camila era venuta, io ero al lavoro. Loro avevano preparato tutto perché fosse speciale. Nessuno immaginava che Lily avrebbe preso “clone” alla lettera.

Incontrai lo sguardo di Camila: era come specchiarmi in una luce diversa. Stessa bocca, stesse ombre di espressione. Eppure la sua voce era musica.

— Volevo solo conoscerti — disse. — Lily mi ha dato coraggio. È meravigliosa.

Non urlai. Non chiesi perché. La abbracciai. Al posto del senso di tradimento sentii un calore antico: un’appartenenza.

Il mattino seguente andammo da zia Sofia, la sorella di mia madre. Dopo la morte di mamma ci eravamo allontanate: cartoline, qualche “mi piace”, rare telefonate su Lily. Quando dissi: «Zia, devo parlarti. C’è Camila qui», tacque un momento.

— Venite subito. Preparo la colazione.

Alla porta ci guardò come se un fantasma fosse entrato in casa. Sollevò gli occhi al soffitto: — Oh, Gloria… le tue bambine insieme!

Sedemmo al vecchio tavolo della cucina, quello su cui da piccola coloravo a matita. Zia Sofia ci osservò, poi sorrise con tenerezza:

— È identica a te… eppure diversa. Che meraviglia.

Tagliò una fetta di tres leches. Io e Camila, con delicatezza, facemmo la domanda.

— Perché non ce l’avete detto? Perché separarci?

Zia sospirò. Non era l’età ad averle segnato il viso, ma il dolore.

— Non doveva andare così. Vostra madre vi amava. Ma in quei giorni la vita era dura: il paese, il lavoro che non c’era. Due neonate da nutrire, due adulti già alla fame. Camila nacque forte, rosa e piena di voce. Tu, Emily, non respiravi. La levatrice ti vegliò tutta la notte. Al mattino, quando arrivò il coordinatore per l’adozione, tua madre non riuscì a lasciarti andare. Sapeva che Camila ce l’avrebbe fatta. Ti ha tenuta perché aveva paura di perderti.

Camila abbassò lo sguardo, gli occhi lucidi.

— Mi ha data via perché io stavo bene?

— Perché voleva che almeno una di voi avesse una strada più facile — spiegò zia. — E sperava che un giorno vi avreste ritrovate. Non smise mai di parlare della sua “altra bambina”. Fino alla fine.

Camila allungò la mano. La presi. Avevamo lo stesso tremito leggero: due cuori con un ritmo familiare.

Non identiche. Ma finalmente intere.

Quel weekend Jason organizzò la festa che preparava di nascosto: palloncini, cibo, una torta enorme. I miei genitori non c’erano più; avevo sempre pensato di essere figlia unica. Invece avevo una parte di me viva e vera, da sempre, solo nascosta alla mia vista.

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A volte ciò che scambiamo per un tradimento è una benedizione mascherata. E a volte la cosa più stramba detta da un bambino è la verità più profonda che non sapevi di custodire.

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