«Papà, quella cameriera sembra identica a mamma!» Il milionario si voltò di scatto, con il cuore che gli balzò in gola. La frase della figlia gli rimbombava nelle orecchie. Non poteva essere possibile. Sua moglie era morta anni prima… eppure davanti a lui, con il vassoio in mano e lo stesso sguardo che conosceva a memoria, c’era una donna che le somigliava in modo inquietante.

James Whitmore era un nome che pesava come oro nei circoli finanziari di Manhattan. A quarantacinque anni aveva costruito un impero tecnologico che toccava tre continenti. Lo definivano «visionario», le riviste economiche lo celebravano, Forbes lo aveva inserito per cinque anni di fila nella lista dei cento uomini più ricchi al mondo.
Eppure, per lui, quei titoli non avevano più alcun valore.

Da due anni, la sua vita si era incrinata irreparabilmente. Evelyn, sua moglie, era morta in un incidente d’auto. Lei era stata la sua bussola, il suo rifugio, il cuore stesso della sua esistenza. Dopo averla persa, James si era ritirato da tutto: niente stampa, niente affari, niente mondanità. L’alcol non l’aveva mai toccato, ma il dolore lo consumava più di qualunque vizio. Solo una ragione lo teneva in piedi: Emily, la loro bambina di cinque anni, rimasta senza madre troppo presto.

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Un pomeriggio d’ottobre, tornando da Albany, James decise di lasciare l’autostrada per prendere la strada panoramica. Emily era dietro, con il suo quaderno da disegno e lo sguardo rapito dai colori dell’autunno.
«Papà, ho fame», mormorò.

Pochi minuti dopo, si fermarono in una cittadina quasi dimenticata: Bramble Creek. Un pugno di case, una chiesa, una stazione di servizio e una tavola calda con un’insegna un po’ scolorita: Rosie’s Kitchen.

Dentro, il locale profumava di caffè appena macinato e frittelle calde. Si sedettero a un tavolino vicino alla finestra. Emily, distratta dai suoi scarabocchi, alzò improvvisamente la testa e sussurrò, tirando la manica del padre:
«Papà… quella cameriera sembra proprio mamma!»

James seguì lo sguardo della figlia. Una donna stava rabboccando il caffè. Quando si voltò, il cuore di lui ebbe un sussulto: capelli castani raccolti alla buona, lo stesso portamento elegante, gli stessi occhi verdi di Evelyn. Non era una semplice somiglianza. Era come rivedere la moglie viva.

«Posso prendere l’ordine?» chiese la donna, avvicinandosi con un sorriso gentile. Portava un cartellino: Anna.
La voce non era identica a quella di Evelyn, ma abbastanza simile da fargli tremare le mani.

Emily ordinò pancake alle fragole. James, incapace di articolare altro, chiese solo un caffè nero. Ma dentro di sé non smetteva di ripetersi: Non può essere… l’ho vista nella bara. L’ho seppellita.

Eppure, quella donna parlava, si muoveva e sorrideva come Evelyn.

Durante la conversazione, Anna accennò al suo passato: orfana, cresciuta tra case famiglia, senza sapere nulla dei genitori biologici. Un brivido percorse James. Evelyn, anche lei, era stata adottata.

Quella notte, a Manhattan, dopo aver messo a letto Emily, James non chiuse occhio. Davanti a sé aveva la foto che aveva scattato di nascosto ad Anna. Non era solo un’impressione: la somiglianza era troppo forte per essere casuale.

Il giorno seguente incaricò Simon Lee, un investigatore privato. «Trova tutto su questa donna», disse inviandogli l’immagine. «Credo possa essere legata a mia moglie.»

Due giorni dopo, la conferma: Anna Ward, nata il 17 giugno 1989 a Syracuse. Abbandonata alla nascita, cresciuta in affidamento. Evelyn Monroe, sua moglie, era nata lo stesso giorno, nello stesso Stato, anch’essa adottata. Simon recuperò documenti che parlavano di un’unica cartella clinica, con due neonate registrate come “Bambina A” e “Bambina B”. Separate e destinate a famiglie diverse. Gemelle.

Il test del DNA tolse ogni dubbio: corrispondenza al 99,9%.

Quando James tornò a Bramble Creek per dirglielo, Anna lo ascoltò con occhi increduli. «Io… non ho mai avuto nessuno», sussurrò con la voce rotta.
«Adesso sì», rispose lui con dolcezza. «Si chiamava Evelyn. Era mia moglie. Ed è morta senza sapere di averti.»

Anna tremava, stringendo la foto che lui le porse. «È come guardarmi allo specchio.»

Più tardi, James riportò Emily da lei. La bambina la osservò a lungo, poi le corse incontro e la abbracciò. «Profumi come mamma», disse.

Anna la strinse forte, con le lacrime che le scendevano sul volto.

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Non era la fine di un dolore, ma l’inizio di qualcosa di nuovo: una seconda possibilità. Non solo per Anna, che aveva ritrovato una sorella che non sapeva di avere, ma anche per Emily, che scopriva un pezzo di sua madre rimasto nel mondo.

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