Una sera, tornando a casa dopo una giornata interminabile di lavoro, camminavo sotto una pioggia fitta e fastidiosa, quando un suono insolito mi fece fermare.
Non era né una voce né un clacson: era un grido acuto, quasi un lamento. Proveniva dai cespugli vicino a un vecchio parco giochi.
Mi avvicinai, mi chinai… e lo vidi.
Un corvo, fradicio, le penne appiccicate al corpo e un’ala che pendeva inerte. Non tentò di scappare: si limitò a fissarmi.
— «Tranquillo, amico. Vediamo cosa possiamo fare» — mormorai, avvolgendolo con cautela nella giacca.
A casa gli preparai un piccolo rifugio in una scatola: asciugamani caldi, una borsa dell’acqua calda, un po’ d’acqua e qualche pezzo di carne. All’inizio mangiava e beveva con diffidenza, ma lo faceva.
Nei giorni seguenti, l’ala cominciò a guarire e il corvo recuperò le forze. Prima prese a svolazzare per la stanza, poi iniziai a lasciarlo in cortile. Ogni sera tornava.
Finché un giorno non rientrò più. Passò una settimana intera senza vederlo e ormai ero convinto di averlo perso. Ma, esattamente al settimo giorno, quel verso familiare risuonò di nuovo sotto la mia finestra.
Mi precipitai a guardare. Era lui… ma non era solo. Nel becco stringeva qualcosa che luccicava. Si posò sul davanzale, depose l’oggetto con cura, poi entrò in casa, volteggiò sul soffitto e si posò sul bracciolo del divano, fissandomi con occhi attenti.
Con le mani che tremavano raccolsi ciò che aveva portato: un mazzo di chiavi, con un portachiavi consumato che recava le iniziali di mio padre.
Mio padre, scomparso un anno prima. Quelle chiavi le avevamo perse insieme e non le avevamo mai ritrovate.
Come il corvo le abbia trovate, non lo saprò mai.
Ma da quel giorno, oltre a un ricordo ancora più prezioso di mio padre, ho anche un amico fedele: un corvo dalle ali nere e dallo sguardo che sembra custodire un’anima umana.