«Se tua moglie non impara a parlare con me come si deve, figliolo, le strapperò ogni singolo capello dalla testa.»

«Se tua moglie non impara a rivolgersi a me come si deve, figliolo, le strapperò ogni singolo capello dalla testa!»

La voce all’altro capo della linea era tagliente, intrisa di rabbia trattenuta a fatica. Così acuta che sovrastava il brusio monotono dell’ufficio. Maksim, quasi d’istinto, premette il cellulare all’orecchio e si voltò, evitando lo sguardo curioso di un collega. Sullo schermo davanti a lui, il rapporto annuale restava sospeso tra tabelle e grafici, ridotto ormai a un mucchio di linee e cifre prive di senso. La realtà, in quel momento, era tutta racchiusa in quella telefonata, calda e velenosa.

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«Mamma, che succede?» chiese con voce bassa, già stanco.

«Sono venute a trovarmi le mie amiche! Lidia Markovna, la Veročka! Signore perbene, non gente qualunque. Ho apparecchiato la tavola, preparato le insalate, il piatto caldo è in forno. Ho chiamato Jul’ja e, con garbo, le ho chiesto: “Puoi passare mezz’oretta? Ho bisogno di una mano, da sola non ce la faccio”. E sai cosa mi ha risposto?»

Tamara Pavlovna fece una pausa teatrale. Maksim la immaginò in cucina, con il grembiule delle grandi occasioni, il telefono in una mano e un coltello nell’altra, mentre in salotto le sue ospiti osservavano la scena come spettatrici di un dramma familiare.

«Ha detto che era impegnata! Che dovevo avvertirla prima! E davanti alle mie amiche, capisci? Mi ha praticamente trattata da scostumata! Loro ascoltavano e lei lì, a farmi la ramanzina sul pianificare!»

Maksim si massaggiò il naso. Conosceva già il copione: per sua madre, ogni deviazione dal programma era una tragedia, e la colpa ricadeva sempre su qualcun altro. Sapeva bene che Jul’ja probabilmente era davvero sommersa di lavoro; il suo impiego da casa spesso le richiedeva più ore della sua routine in ufficio. Ma per Tamara Pavlovna c’era un solo calendario — il suo.

«Mamma, raccontami bene. Che cosa ti ha detto parola per parola?»

«Parola per parola? Ha detto: “Tamara Pavlovna, non posso, ho una videoconferenza. Finisco tra tre ore e poi arrivo”. E così ha messo il suo lavoro davanti a me! Io qui, a sgobbare per ricevere le mie amiche, e lei davanti a uno schermo! Tu devi portarla subito. Deve chiedere scusa. Davanti a tutti.»

Era un ordine, non una richiesta. Maksim si vide costretto a lasciare l’ufficio, trascinare a casa la moglie e condurla da sua madre per un’umiliazione pubblica. L’idea era talmente assurda che per un attimo gli scappò un sorriso amaro.

«Mamma, sono al lavoro. Ne parliamo stasera.»

«Stasera?! Ma l’affronto è avvenuto adesso! Loro già dicono che ti sei scelto una nuora maleducata e presuntuosa! Devi intervenire subito. Sei un marito o no?»

Sapeva che non cercava una soluzione: voleva solo riaffermare la propria autorità.

«Stasera,» ripeté con decisione, e chiuse la chiamata. Posò il telefono a faccia in giù. Il collega faceva finta di niente, ma lui sentiva addosso il peso di quello scambio. I numeri sul monitor si confondevano. Quella sera sarebbe stata lunga.

A casa lo accolse l’aroma di caffè e aria pulita. Niente odore di carne o pentole sul fuoco: qui regnava ordine e silenzio. Jul’ja era alla scrivania, concentrata sullo schermo, e lo notò solo dopo qualche secondo.

Maksim andò in cucina, bevve un bicchiere d’acqua tutto d’un fiato e tornò verso di lei.

«Ciao. Com’è andata la giornata?»

«Ha chiamato tua madre,» rispose lei con calma. «Ha chiuso quando le ho detto che ero impegnata.»

«Vuole che tu le chieda scusa. Davanti alle sue amiche.»

Jul’ja chiuse il portatile e lo guardò senza un briciolo di nervosismo:

«Avevo una call con clienti tedeschi per definire un progetto che seguo da tre mesi. Le ho detto: “Sono in riunione, finisco tra tre ore e arrivo”. Poi ha chiuso la telefonata. Tutto qui.»

Era un fatto, netto, inequivocabile. Maksim rivide mentalmente la madre in preda all’isteria per un paio di insalate, e la moglie che difendeva il loro futuro. All’improvviso, la pretesa di “scegliere” gli sembrò ridicola.

«Capito,» disse solo. Prese il cellulare e lo mise in viva voce.

«Allora?» si sentì la voce della madre.

«Mamma, Jul’ja lavorava. Non può mollare tutto per un tuo capriccio. Non è la tua domestica, è mia moglie. E non voglio più sentirti minacciarla. Se succede ancora, non ci vedremo più.»

Un silenzio lungo e pesante. Poi lui riattaccò. Jul’ja lo guardò con comprensione, senza trionfalismi. Era solo la prima battaglia di una guerra già iniziata.

Passarono due settimane di silenzio. Nessuna chiamata, nessun messaggio. Un vuoto più inquietante di mille urla. Maksim sapeva: non si era arresa, stava solo preparando la prossima mossa.

E arrivò.

Una mattina di sabato, la voce di sua madre, stranamente dolce:

«Tesoro, tra poco è il mio compleanno. Non è una data importante, ma vorrei riunire i parenti. Sorelle, nipoti… verrete anche tu e Jul’ja?»

Maksim capì subito che non era un invito, ma una trappola confezionata con parole zuccherate.

«Verremo,» rispose, sapendo che un rifiuto sarebbe stato usato contro di lui.

Il giorno della festa, l’appartamento della madre era pieno di profumi intensi, parquet lucidati, volti del passato. Tra le invitate, le sorelle di lei, le cugine, e naturalmente Lidia Markovna. Sguardi di circostanza, sorrisi educati.

Jul’ja entrò con passo sicuro e il mento alto. Sapeva che era lì per essere messa alla prova.

Le prime frecciate arrivarono presto: zia Zoja e zia Nina, con allusioni al fatto che “la famiglia viene prima di tutto” e che Maksim “era sempre stato vicino alla mamma”.

Jul’ja sorrise con calma: «I tempi cambiano, signora Nina. Oggi si può amare la famiglia e avere anche una carriera.»

Silenzio. Non la risposta che si aspettavano. Poi Tamara Pavlovna prese la parola, raccontando aneddoti della sua vita, in cui ogni sacrificio veniva sottolineato e ogni frase lasciava cadere un’ombra di rimprovero su Jul’ja.«…e allora compresi,» concluse con aria solenne, «che il fondamento di ogni famiglia è il rispetto. Rispetto per chi è venuto prima di noi, per l’esperienza maturata negli anni, per le parole di chi ha vissuto di più. Senza questo pilastro, una casa crolla come un castello di carte.»

Gli invitati annuirono in coro, lanciando a Jul’ja sguardi carichi di velata accusa. In quella stanza, colma di tradizioni e di un tacito patto di mutua protezione, lei era un corpo estraneo. Maksim tentò di alleggerire la tensione, ma le sue parole si persero in mezzo al brusio complice del gruppo. In quel contesto non era il figlio, né il nipote: era soltanto il marito di una donna che non rientrava nei loro schemi.

Il culmine arrivò quando Tamara Pavlovna sollevò il calice.

«Brindo alla famiglia,» disse, scrutando i volti intorno a sé con un lampo di trionfo negli occhi. «Alla gioventù che sa ascoltare i più anziani e che non mette mai il lavoro davanti a ciò che conta davvero. Auguro a mio figlio saggezza… e a sua moglie» — breve pausa — «di imparare questa saggezza. Di comprendere che la famiglia non è un impegno che si può rimandare.»

Era una sentenza. Pubblica. Inequivocabile.

Maksim non replicò. Aspettò che il brindisi si concludesse, poi si alzò in piedi, ripose il tovagliolo sul tavolo e disse soltanto: «Grazie per la serata. È ora di andare.»

Prese la mano di Jul’ja e si avviarono verso l’uscita, lasciando dietro di sé un silenzio sorpreso. Nessuna scenata, nessun grido: solo un distacco glaciale. Un colpo più duro di qualsiasi discussione, perché era la dimostrazione che lui non intendeva più giocare con le loro regole.

Il viaggio di ritorno si svolse senza parole. In auto, Maksim non girò subito la chiave nel cruscotto. Jul’ja fissava il buio oltre il finestrino, senza domande né frasi di circostanza: la sua sola presenza era un sostegno. Si fidava di lui, senza riserve.

«Devo tornare,» disse infine.

«Da solo?»

«Sì. È ora di chiudere questa faccenda, una volta per tutte.»

Non aggiunse altro. Lei comprese subito e non lo trattenne. Pochi minuti dopo, Maksim parcheggiava di nuovo davanti al palazzo della madre. Suonò il campanello. Apre zia Zoja: il sorriso accogliente le morì sulle labbra quando lo vide. Lui entrò senza spiegazioni, diretto verso il salotto.

La festa proseguiva, ma l’aria era più pesante. Tamara Pavlovna, al centro della scena, stava ricevendo un elogio da Lidia Markovna:

«…sei sempre stata una donna lungimirante, Tomočka. Sai riconoscere la radice del male.»

Alla vista di suo figlio, Tamara si irrigidì, sorpresa e con un filo di speranza: era certa che fosse tornato a chiedere scusa.

«Ti sei ravveduto? Vuoi onorare tua madre come si deve?»

Maksim si fermò a metà stanza, ignorando il tavolo imbandito. Passò lo sguardo su ogni volto presente: sua madre, le zie, le “alleate” di sempre. Una giuria che aveva già emesso il verdetto.

«Sono qui per dire una cosa chiara,» iniziò con voce ferma. «Questa sera hai messo in scena uno spettacolo per costringermi a scegliere tra te e mia moglie.»

Il sorriso della madre si incrinò.

«Tu oggi hai fatto la tua scelta. Ora tocca a me.»

Una pausa. Nessuno osava muoversi.

«Questo appartamento era di papà. La mia metà è l’unico legame che ho con queste mura. Domani la metto in vendita.»

Il silenzio fu totale, rotto solo dal ronzio del frigorifero. Nina aprì la bocca, ma restò muta. Il volto di Tamara si irrigidì fino a sembrare pietra.

«Cosa…?» riuscì a mormorare, non come una domanda, ma come un gemito.

«Con ogni probabilità, si venderà l’intero immobile. Riceverai la tua parte, abbastanza per un piccolo appartamento fuori città. Io e Jul’ja compreremo casa altrove.»

Non parlava con rancore, ma con fredda determinazione. Non era una minaccia: era una decisione irrevocabile. Lanciò alla madre un ultimo sguardo — a quella donna che per anni aveva cercato di tenerlo in pugno con il senso di colpa e l’autorità. Ora, circondata dai suoi sostenitori, era più sola che mai.

«Questo è tutto, mamma. Io scelgo la mia famiglia.»

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Si voltò e uscì. Nessuno provò a fermarlo. Nessuna protesta, nessuna implorazione. Solo il secco rumore della porta che si chiudeva. Questa volta, per sempre.

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