«Il latte stava per traboccare», Marina era ferma accanto al fornello, con gli occhi fissi sulla schiuma bianca che saliva oltre il bordo della pentola.
Balzai dal divano e spensi di scatto il fuoco. Il latte aveva già invaso il piano cottura e colava a fiotti sul pavimento. Ma Marina rimaneva immobile, come paralizzata, con lo sguardo perso nel vuoto.
«Marina, cosa stai facendo?» la presi delicatamente per le spalle e la ruotai verso di me.
I suoi occhi erano vuoti, come se stesse fissando qualcosa di invisibile, un muro che solo lei vedeva.
«Stanno piangendo di nuovo», mormorò a bassa voce.
Dal lato della cameretta dei bambini arrivava un debole pianto. Uno dei piccoli si era svegliato, svegliando anche l’altro. Guardai Marina: non si era mossa di un centimetro.
«Vado io», balbettai, dirigendomi verso le culle.
Artem scuoteva i pugni agitati, mentre Dasha già urlava disperata. Li presi in braccio entrambi e cominciai a cullarli. Marina apparve all’architrave della porta.
«Perché sono due?» chiese all’improvviso, con una voce carica di tensione.
«Cosa?» stavo per far cadere Dasha.
«Niente, lascia perdere.»
Si voltò e se ne andò. Rimasi lì, con i neonati tra le braccia, cercando di capire cosa stesse succedendo davvero.
Quella settimana passò tutta così. Marina trascorreva ore in cucina, fissando un punto indefinito nel vuoto. Nutriva i bambini in modo meccanico, senza un sorriso. Di notte non dormiva, sentivo i suoi passi silenziosi per casa.
«Forse dovremmo parlare con uno specialista?» proposi una sera a cena.
«Perché mai?» rispose lei, infilando la forchetta nel piatto. «Sto bene.»
«Marina, ti guardi allo specchio? Hai occhiaie, sei dimagrita…»
«Sono solo stanca.»
«Di cosa? Ti aiuto io, tua madre viene spesso…»
Lei scostò il piatto con forza.
«Sono stanca di tutto! Del loro pianto continuo, dell’odore del latte in polvere, dei pannolini infiniti! Non ce la faccio più!»
«Passerà», provai a stringerle la mano, ma lei si ritrasse.
«E se non passasse?» si alzò dalla sedia. «E se non volessi che passasse?»
Dalla cameretta arrivò un pianto acuto di Artem. Marina sobbalzò, come scossa da un fulmine.
«Se ne occupi tu», disse con durezza. «Sono tuoi figli.»
«Sono nostri figli, Marina. I nostri.»
Lei scoppiò a ridere, una risata strana e improvvisa.
«Sai una cosa? Siamo genitori di due!», urlò quasi. «Due, capisci? Io volevo solo uno! Mi ero preparata per uno, non per questa… fabbrica di bambini!»
Rimasi senza parole. Non sapevo cosa rispondere.
«Li porteremo in un orfanotrofio», disse di colpo. «Non sono pronta a vivere così.»
Quelle parole rimasero sospese nell’aria, pesanti. Guardai mia moglie, non la riconoscevo più. Non era quella che piangeva di gioia alla prima ecografia.
«Parli sul serio?»
«Assolutamente. Voglio vivere per me. Viaggiare, lavorare, uscire con gli amici. Non stare chiusa in casa con due neonati che non smettono di piangere!»
«Sono nostri figli, Marina. I nostri!»
«Allora portateli voi», disse mentre si dirigeva verso la cucina.
«Dove vai?»
«A dormire. Se ricominceranno a piangere, toccherà a te.»
I mesi che seguirono furono un incubo. Marina costruì intorno a noi un muro invisibile. Allattava i bambini in silenzio, cambiava i pannolini con lo sguardo vuoto. Ogni volta che cercavo di avvicinarmi, mi respingeva.
«Parlami», la supplicavo la sera.
«Di cosa?» sfogliava una rivista senza guardarmi. «Di come Artem mi ha sputato addosso la pappa? O di come Dasha non ha dormito fino alle quattro di notte?»
«Di noi, Marina. Di cosa ci sta succedendo.»
«Noi?» finalmente mi guardò. «Noi non esistiamo più. Siamo solo io, te e questi due.»
La mamma veniva spesso a darci una mano. Marina la salutava con un sorriso teso, poi si chiudeva in camera.
«Che ha, figlio mio?» chiedeva la nonna cullando Dasha.
«Non lo so, mamma. Forse depressione post-partum?»
«Dovremmo farla vedere da un medico.»
«Rifiuta.»
Un giorno tornai a casa e trovai Marina davanti al computer, con un’espressione diversa.
«Guarda!» mi mostrò lo schermo. «Tour in Thailandia. Ricordi che ne sognavamo uno?»
«Marina, abbiamo due neonati.»
«Proprio per questo!», chiuse di scatto il computer. «Due! E ne doveva essere uno!»
«Non capisco.»
«Come potresti? Tu non li hai portati in grembo per nove mesi! E non li allatti da solo!»
Dalla cameretta riprese a piangere. Marina si alzò in fretta e prese la borsa.
«Dove vai?»
«Al negozio. È finito il latte.»
Tornò dopo tre ore.
«Dove eri stata?»
«Ho incontrato Lenka. Ti ricordi? Vive in Italia, si è sposata con un italiano e viaggia per tutta Europa. E io…», fece un gesto con la testa, «sono qui, a casa con i tuoi figli!»
«I nostri figli, Marina!»
«Che differenza fa?» passò oltre, diretta verso la camera.
La mattina seguente mi svegliò un rumore: Marina stava riempiendo una valigia.
«Che succede?»
«Vado dai miei per una settimana. Ho bisogno di riflettere.»
«Riflettere su cosa? Marina, riprenditi! Hai una famiglia!»
«Famiglia?» rise amaramente. «Non è una famiglia. È una prigione!»
Prese la valigia e se ne andò. Rimasi solo con i gemelli di cinque mesi.
Una settimana divenne due, poi un mese. Telefonavo ogni giorno, ma lei non rispondeva. Mandavo messaggi, nessuna risposta. Sua madre diceva che Marina non voleva parlare.
Una notte Dasha si ammalò. Febbre alta e tosse. Chiamai l’ambulanza e la portammo in ospedale. Telefonai a Marina.
«Dasha è in ospedale. Ha la polmonite.»
Silenzio. Poi:
«Ce la farai. Tu volevi questi figli.»
E riattaccò.
Rimasi nel corridoio dell’ospedale, capendo che era finita.
Tornammo a casa dopo una settimana. Sul tavolo trovai una busta. Dentro c’era la richiesta di divorzio e le chiavi dell’appartamento.
«Scusa. Non sono fatta per questo. L’appartamento è vostro, io me ne sono andata. Non cercarmi.»
Caddi a terra nell’androne. Artem si svegliò piangendo. Poi anche Dasha. Mi alzai e li presi con me.
«Allora, piccoli? Siamo rimasti in tre.»
«Vieni da noi», mi diceva la mamma al telefono. «Come fai a stare in città?»
Guardavo i bambini addormentati. Era passato un anno da quando Marina se n’era andata. Me la cavavo come potevo: con una tata, i consigli della mamma, le notti in bianco. Ma l’appartamento mi soffocava con i ricordi.
«E il lavoro?»
«Lavorerai da casa. Qui c’è internet. E poi l’aria, lo spazio. E noi siamo vicini.»
Un mese dopo caricavo le cose in macchina. La vicina, zia Ljuba, sbirciò fuori.
«Andate via? E Marina dov’è?»
«Marina non c’è più. Se n’è andata.»
«Oh, povero… Solo con due gemelli…»
«Ce la farò.»
La casa di famiglia ci accolse con il profumo del pane appena sfornato. Papà mi abbracciò in silenzio, la mamma prese Dasha in braccio.
«Sono tutti magri! Non preoccuparti, vi rifaremo mangiare!»
Le prime settimane furono strane. I bambini, abituati al caos della città, si svegliavano col canto del gallo. Però si addormentavano più in fretta: l’aria di campagna faceva miracoli.
«Nonno! Nonno!» Artem imparò a camminare per primo, seguendo mio padre come un’ombra.
«Nonna, dammi!» Dasha allungava le mani verso le frittelle di mele della nonna.
Lavoravo nel mio studio al piano di sopra e sentivo le loro risate di sotto. Il cuore si stringeva, non per il dolore, ma per la gratitudine.
Gli anni volarono. La prima elementare: Dasha con le trecce, Artem con un sorriso da un orecchio all’altro. Alle riunioni con gli insegnanti la maestra li elogiava.
«Bambini così educati sono rari oggigiorno.»
«Grazie ai miei genitori», rispondevo.
«Papà, perché tutti hanno una mamma e noi no?» mi chiese una volta Artem, seduti in veranda a guardare il tramonto.
«Avete me, la nonna e il nonno. Non basta?»
«È più che sufficiente», disse Dasha abbracciandomi. «Tu fai da papà e da mamma.»
Alle superiori andarono benissimo. Artem si appassionò alla programmazione, Dasha alla medicina.
«Sarò medico, come la nonna Nina, che cura tutti!»
«E io farò programmi! Farò il sito per il tuo ospedale!»
Li osservavo incredulo: erano davvero quei due piccoli che la madre aveva lasciato?
Alla festa di diploma, Dasha elegante, Artem in completo. Mamma piangeva, papà cercava di trattenere le lacrime.
«Facciamo una foto! È un momento storico!»
Eravamo in quattro: la mia vera famiglia. La sera, a cena, ricordavamo.
«Papà», Dasha mi prese la mano, «sappiamo che hai rinunciato a molto per noi.»
«A cosa?»
«Alla vita privata, per esempio.»
«Sciocchezze. Ho voi. Cos’altro serve?»
«Grazie di tutto», disse Artem, più tranquillo, stringendomi forte.
Quella notte uscii sul portico. Le stelle brillavano intense, come solo in campagna. Pensai a quel giorno in cui Marina se n’era andata. Credevo fosse la fine.
Invece fu un nuovo inizio.
Da qualche parte in città vive una donna che ha partorito i miei figli. Forse se ne pente. Forse no. Non importa.
Quello che conta è che due persone meravigliose mi chiamano papà. Che i miei genitori sono diventati per loro una seconda famiglia. Che in questa vecchia casa è sbocciato un amore vero.
«Ehi, nottambulo!» la mamma uscì con una tazza di tisana. «Non dormi?»
«Sto pensando.»
«Cose belle?»
«Le più belle, mamma. Le più belle.»
«Papà, c’è una donna che ti sta cercando», disse Dasha, apparendo sulla soglia del mio studio con aria sospettosa.
Stavo lavorando al computer, in pieno giorno. Chi poteva essere?
«Chi?»
«Non si è presentata. Ha detto che vi conoscete da tempo.»
Scesi le scale. Vicino al cancello c’era una donna con un cappotto elegante. I capelli grigi punteggiavano quelli un tempo castani, rughe intorno agli occhi. Ma la riconobbi subito.
Marina.
Diciotto anni erano passati. Diciotto anni senza una parola, senza una notizia. Ed eccola lì.
«Ciao», disse sottovoce.
«Perché sei venuta?»
«A parlare. Possiamo?»
«Di cosa dovremmo parlare?»
«Di loro, dei bambini.»
Sorrisi.
«Ora esistono anche per te?»
Lei tremò, come scossa.
«Me lo sono meritato. Ma ascoltami, per favore.»
Dasha uscì sul portico e si mise accanto a me.
«Papà, va tutto bene?»
Marina guardava la bambina senza muovere un muscolo. Negli occhi, lacrime.
«Dasha? Sei tu?»
«Come fai a sapere il mio nome?» la bambina aggrottò la fronte.
«Vai dentro», dissi. «Parlerò con l’ospite, poi vengo.»
Dasha entrò, lasciandoci soli.
«Sei cresciuta bene», sussurrò lei.
«Non grazie a te.»
«Lo so. Vi ho osservati da lontano, sui social, tramite amici comuni.»
«E allora?»
«Siete stati fantastici. Tu, i tuoi genitori. I bambini sono meravigliosi.»
«Posso passare del tempo con loro?»
«No.»
«Capisco la tua rabbia…»
«Rabbia?» scoppiò a ridere. «Marina, non sono arrabbiato. Me ne è indifferente. Non eri lì diciotto anni fa. Ora sei solo un fantasma.»
«Ho dei soldi», porse una busta. «Mi sono sistemata bene: attività, matrimonio felice. Non ho avuto altri figli. Non sono riuscita.»
«Butta via quella busta.»
«È per loro. Per gli studi, per la vita…»
«Hanno tutto. Papà, nonna e nonno, una casa, amore. Quello che non hanno è il trauma dell’abbandono. E non permetterò che glielo infliggi.»
Artem uscì di casa.
«Papà, è pronto il pranzo. La nonna chiama…» si fermò vedendo Marina.
Lei lo guardava, con le mani tremanti.
«Artem…»
«Chi sei?» chiese il ragazzo gentile, ma freddo.
«Nessuno», risposi per lei. «Se n’è già andata.»
Marina annuì e fece un passo indietro.
«Lascerò la busta sul cancello. Dentro c’è anche una lettera. Per loro. Quando crederai sia il momento…»
Si voltò e si avviò verso l’auto. Al cancello si girò ancora.
«Grazie. Per non averli abbandonati. Per essere un vero padre.»
«Non voglio la tua gratitudine.»
L’auto partì. Artem si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla.
«Chi era quella, papà?»
«Il passato, figlio. Solo il passato.»
Presi la busta dalla spazzatura. Dentro c’era un assegno di grande valore e una lettera. Senza leggerla, stracciai tutto e la gettai via.
A cena i bambini erano pensierosi.
«Quella donna…» iniziò Dasha.
«Non importa», la interruppi.
«Era lei?» chiese Artem guardandomi negli occhi. «La nostra madre biologica?»
Sempre svegli, i miei bambini.
«Sì.»
«E l’hai mandata via?»
«Cosa avrei dovuto fare? Invitarla a un tè? Farvela conoscere?»
«Papà», Artem mi mise una mano sulla spalla, «non siamo più bambini. Abbiamo diciotto anni. Abbiamo diritto a sapere.»
Li guardai, i miei figli. Cresciuti nell’amore, col cuore puro.
«Vi ha lasciati a cinque mesi. Ha detto di non essere pronta per due gemelli. Che voleva vivere per sé. E se n’è andata.»
«E basta?» Dasha aggrottò le sopracciglia. «Se n’è andata così?»
«Così. Ha lasciato la domanda di divorzio e le chiavi.»
Silenzio intorno al tavolo. La nonna si alzò e cominciò a sparecchiare.
«Sapete una cosa?» ruppe il silenzio Artem. «Ha perso l’occasione di conoscere due persone fantastiche.»
«E il miglior papà», aggiunse Dasha.
«Non preoccupatevi per noi, papà», sorrise Artem. «Abbiamo una famiglia. Una vera famiglia. E lei… è solo una sconosciuta.»
Quella notte non riuscii a dormire. Uscito in giardino, mi sedetti sul portico. Le stelle brillavano alte.
Il mio compito è stato crescere questi due in casa. Domani partiranno per l’università, costruiranno la loro vita. Senza il peso del passato, senza traumi, senza domande sul «perché la mamma ci ha abbandonati».
Presi la busta dalla spazzatura. La lettera… la conservai. Forse, un giorno, vorranno leggerla. O forse no.
La scelta è loro. Il loro diritto.
Per ora hanno tutto ciò che serve per essere felici. E per i fantasmi del passato qui non c’è posto.