Mia moglie, Claire, è morta cinque anni fa. Da allora ho cresciuto nostra figlia Emily da solo, passo dopo passo, cercando di costruire una vita normale sulle macerie di quella vecchia. Quando il mio migliore amico, Lucas, ci ha invitati al suo matrimonio, ho pensato che fosse un buon segno: un nuovo inizio, almeno per lui. Forse anche per noi.

La sala del matrimonio era avvolta da una luce ambrata, morbida e calda, quel tipo di illuminazione che rende tutti più belli e tutto più facile da perdonare. Emily mi teneva la mano con forza mentre ci facevamo strada tra le file ordinate di sedie bianche. A dieci anni aveva gli stessi grandi occhi color nocciola di sua madre e quella piccola, ostinata piega tra le sopracciglia quando qualcosa la incuriosiva.

Per anni eravamo stati solo noi due. Da quando Claire, mia moglie, era morta in un incidente d’auto, la nostra vita si era ridotta a un fragile equilibrio fatto di sveglie all’alba, pranzi veloci e abbracci più stretti del necessario. Cinque anni di lutto, di sopravvivenza, di lenta ricostruzione. Quella sera, però, doveva essere solo una festa. Un nuovo capitolo — almeno per il mio migliore amico, Lucas Carter, che finalmente sposava la donna con cui diceva di voler passare il resto della vita.

Advertisements

Lucas era stato la mia ancora quando Claire se n’era andata. Era lui che mi aveva aiutato a lasciare il vecchio appartamento per trasferirmi nella piccola casa alla periferia di Chicago. Lui che aveva riparato il rubinetto che perdeva, che si era seduto sul pavimento della cucina con Emily per farle ridere quando io non ce la facevo. Lui che faceva da babysitter quando dovevo trattenermi in ospedale per i turni infiniti. Era più di un amico: era famiglia. Quando mi aveva annunciato che si sposava, ero stato felice. Davvero felice per lui.

La cerimonia iniziò con una melodia dolce di pianoforte. Gli invitati si alzarono in piedi quando la sposa fece il suo ingresso. Il volto era nascosto da un lungo velo trasparente che scintillava alla luce, l’abito ondeggiava a ogni passo. Emily appoggiò la testa al mio braccio e sussurrò quanto fosse stupendo il vestito. Le sorrisi, ma qualcosa dentro di me si irrigidì. Il modo in cui la sposa camminava, l’inclinazione appena accennata delle spalle, il gesto con cui sfiorava il bouquet… c’era qualcosa di inquietantemente familiare.

Poi Lucas sollevò il velo.

Il mondo si fermò.

Mi mancò l’aria. Sentii le gambe diventare di piombo. Davanti a me, a pochi metri di distanza, c’era il volto di Claire. Mia moglie. La donna che avevo visto in una bara cinque anni prima.

Rimasi lì, congelato, incapace persino di battere le palpebre. Il brusio, gli applausi, la voce del celebrante… tutto si trasformò in un rumore ovattato, lontano. Non esisteva più nulla, se non quel volto. Gli stessi occhi, lo stesso taglio delle labbra, lo stesso sorriso lieve, controllato. Claire. Ogni fibra del mio corpo gridava che fosse lei.

«Papà.»
Emily mi tirò la manica, la sua vocina trafisse la nebbia che mi avvolgeva. «Perché la mamma sta sposando lo zio Lucas?»

La bocca mi si fece di carta. Le mani cominciarono a tremare così forte che rischiai di far cadere il libretto della cerimonia.

Non poteva essere. Claire era morta. Avevo visto l’auto distrutta, lamiere contorte e vetri ovunque. Avevo riconosciuto il suo corpo, firmato i documenti, stretto le mani di chi veniva al funerale. Avevo pianto fino a non avere più lacrime. Eppure lei era lì, viva, vestita di bianco, le dita intrecciate a quelle del mio migliore amico.

All’improvviso la sala mi sembrò troppo piccola, l’aria rarefatta. Avevo la sensazione che tutti mi stessero guardando. Alcuni invitati si voltavano appena, sussurravano qualcosa all’orecchio del vicino, qualcuno lanciava rapide occhiate nella mia direzione.

Non sapevo se stessi impazzendo o se fossi diventato l’unico in grado di vedere l’impossibile.

Il primo impulso fu di alzarmi, urlare, fermare la cerimonia. Di correre verso l’altare, strappare via quel vestito e pretendere risposte. Ma le dita di Emily si strinsero attorno alle mie, come un’ancora. Non potevo distruggere tutto davanti a lei. Non lì, non così.

Rimasi seduto, immobile, mentre le loro promesse si susseguivano, ogni parola che si scambiavano mi entrava sotto pelle come schegge di vetro.

Quando l’officiante li dichiarò marito e moglie e Lucas si chinò a baciare la sposa, sentii la nausea salirmi su per la gola. Gli invitati scoppiarono in applausi, qualcuno si asciugò le lacrime di commozione. Io restai rigido, lo sguardo fisso su di loro, con la mente che correva in cerchio senza trovare un appiglio.

Al ricevimento mi tenni lontano dal tavolo d’onore. Mi piazzai vicino al bar, fingendo normalità. Versai aranciata a Emily, le feci assaggiare la torta, la lasciai chiacchierare con gli altri bambini. Ma i miei occhi erano incollati a Julia — ormai conoscevo il suo nome — e a Lucas. Più li osservavo, più la somiglianza con Claire diventava insostenibile. Il modo in cui rideva, come inclinava la testa, persino il tono della voce… quasi identico, solo un po’ più basso, più controllato.

Alla fine non resistetti. Chiamai una delle damigelle, una ragazza dai capelli rossi sempre indaffarata tra tavoli e invitati.

«Mi ricordi il nome della sposa?» chiesi, cercando di sembrare casuale.

«Julia», rispose lei, sorridendo. «Julia Bennett. Si sono conosciuti un paio d’anni fa a Denver, se non sbaglio.»

Julia Bennett. Non Claire. Il mio cervello si aggrappò a quell’informazione come a una boa. Ma non bastava a spiegare l’evidenza davanti agli occhi. Perché quella donna aveva esattamente il volto della mia defunta moglie?

Più tardi, Lucas mi trovò fuori, sulla terrazza, con una birra in mano ormai calda.
«Ethan, che succede? Sei stranamente silenzioso.»

Tentai di ricompormi, ma le parole mi uscirono di getto. «Lei… assomiglia a Claire. Non solo un po’. È uguale.»

Lui corrugò la fronte, guardandomi per qualche istante in silenzio. «Lo so. L’ho notato anch’io quando ci siamo conosciuti. Mi ha colpito parecchio. Ma Julia non è Claire, fratello. Questo lo sai.»

Inghiottii a fatica. «Emily lo ha notato.»

«È normale che sia confusa», sospirò lui, posandomi una mano sulla spalla. «Abbiamo attraversato l’inferno tutti e due. Non ti farei mai del male, lo sai. Julia è… Julia. Non è una sostituta. Non è Claire. Hai solo bisogno di tempo per abituarti.»

Ma il tempo non fece che peggiorare le cose.

Quando Julia venne a salutarci, alla fine della serata, si chinò all’altezza di Emily e le rivolse un sorriso caldo, sincero.
«Tu devi essere Emily. Tuo padre parla sempre di te.»

Emily la fissò a lungo, poi disse, con una semplicità disarmante: «Hai la voce della mamma.»

Per un attimo il sorriso di Julia tentennò. Le si irrigidirono le spalle, ma si riprese subito. «Allora è un grande complimento», rispose piano.

Io invece rimasi bloccato su quella reazione, sul lampo nei suoi occhi. Sembrava paura. O colpa. Capì in quel momento che non sarei riuscito a lasciar correre.

Le settimane successive furono un lento logoramento. Non dormivo, non mangiavo davvero. Tornavo a casa dall’ospedale e mi ritrovavo seduto sul pavimento del soggiorno, circondato da album fotografici. Confrontavo ogni immagine di Claire con l’ultima volta che avevo visto Julia. La struttura del volto era la stessa, la stessa minuscola cicatrice sopra il sopracciglio destro, la fossetta sulla guancia sinistra quando sorrideva davvero. Era troppo. Troppo perché si potesse parlare di semplice coincidenza.

Alla fine ingaggiai un investigatore privato. Se Julia era chi sosteneva di essere, tutto sarebbe emerso dai documenti. Nel giro di pochi giorni il detective tornò con un fascicolo ordinato: certificato di nascita, iscrizioni scolastiche, patente, storico degli indirizzi. Tutto in regola. Julia Bennett, nata a Seattle nel 1988. Nessun collegamento diretto con Claire.

Eppure la mia inquietudine non si placò. I pezzi non combaciavano. Mi serviva qualcosa che quei fogli non potevano darmi: una confessione, una crepa, una verità scomoda.

Una sera, mentre eravamo invitati a cena da loro, colsi Julia da sola in cucina.
Mi aggrappai al bordo del bancone, come se potesse impedirmi di crollare.

«Chi sei davvero?» chiesi, con la voce strozzata.

Lei si irrigidì. «Ethan, te l’ho già spiegato—»

«No.» La interruppi, sentendo la rabbia e la paura fondersi. «Non sei solo Julia. Hai la stessa cicatrice di Claire, la stessa risata, perfino lo stesso modo di arricciare il naso quando sorridi. Non puoi chiedermi di crederci. Non puoi dirmi che è solo… casualità.»

Per un istante vidi qualcosa cambiare nei suoi occhi: dolcezza, forse rimorso, come se stesse per lasciar cadere una maschera. Ma poi scosse la testa e disse piano:
«Le persone elaborano il lutto in modi strani, Ethan. Forse stai vedendo ciò che hai bisogno di vedere.»

Quella risposta mi lasciò più devastato di prima.

Il punto di rottura arrivò qualche notte dopo. Emily mi chiamò singhiozzando dalla sua cameretta. Entrai di corsa e la trovai seduta sul letto, il pigiama stropicciato, il viso bagnato di lacrime.

«Ho fatto un brutto sogno», disse, aggrappandosi al mio braccio. «C’era Julia… ma era la mamma. È venuta da me, mi ha rimboccato le coperte come faceva lei. Mi ha detto che andrà tutto bene.» Mi guardò con occhi disperati. «Papà, penso che la mamma sia tornata.»

Sentii qualcosa spezzarsi dentro. Non potevo permettere che mia figlia vivesse intrappolata in quella confusione.

Una settimana dopo, andai da Lucas deciso a mettere tutto sul tavolo.
«Voglio la verità», dissi, senza girarci attorno. «Sapevi quanto lei assomiglia a Claire quando l’hai sposata? Ti sei mai chiesto se… potesse essere lei?»

Il viso di Lucas si irrigidì, gli occhi si fecero duri. «Ethan, stai andando oltre. Claire è morta. Tu lo sai meglio di chiunque altro. Julia è mia moglie. Se continui così, ti distruggerai da solo.»

Stavo per ribattere quando Julia entrò nella stanza. Ci guardò entrambi: prima lui, poi me. In quegli occhi c’era qualcosa che non avevo mai visto — un conflitto interno, un peso. Rimase immobile per qualche istante, poi premette le labbra e disse, con voce bassa e tremante:

«C’è qualcosa che non ho detto a nessuno dei due.»

Il silenzio calò sulla stanza come una coperta pesante. Potevo sentire il sangue battermi nelle orecchie. Dal corridoio, intravidi Emily che sbirciava, la mano aggrappata allo stipite della porta.

Julia inspirò profondamente.

«Io non sono Claire», disse piano. «Ma la conoscevo. Molto più di quanto possiate immaginare.»

Advertisements

Quelle parole mi fecero vacillare. In un attimo capii che tutto ciò che pensavo di sapere sulla morte di Claire — e su ciò che era successo dopo — non era che una versione incompleta. La sua storia, e forse la nostra, non era affatto finita. Era appena stata scoperchiata.

Leave a Comment