Trattenni il fiato, schiacciata contro il parquet gelido sotto l’enorme letto di mogano, con il cuore che batteva così forte da farmi temere che qualcuno potesse sentirlo. A stento contenevo una risata: ero ancora avvolta nel mio abito da sposa, una cascata bianca che si gonfiava intorno a me come una nuvola, mentre il velo si impigliava nelle doghe sopra la testa.
Se Marcus mi trova così, pensai, gli prenderà un colpo. Me lo immaginavo entrare, chiamarmi con la voce allarmata, controllare dietro le tende, nell’armadio, persino in bagno… e poi io, saltando fuori all’improvviso: «Sorpresa!». Avremmo riso fino alle lacrime, come quando eravamo ancora “noi”.
Perché un tempo Marcus era davvero diverso: leggero, divertente, con lo sguardo acceso e quella risata capace di contagiare chiunque. Era uno di quelli che si presentavano sotto la finestra a mezzanotte con una chitarra acustica e un blues stonato, finché i vicini non minacciavano di chiamare la polizia. Io scendevo in pigiama e pantofole con i coniglietti, e scappavamo via ridendo come ragazzini, anche se avevamo entrambi superato i trent’anni da un pezzo.
Poi la porta si aprì con un cigolio.
Aspettavo i passi di mio marito.
Invece sentii il ticchettio secco dei tacchi di mia suocera.
Veronica entrò come se la stanza le appartenesse. Non guardò intorno, non esitò: avanzò con quella sicurezza che aveva sempre, l’aria di chi non chiede permesso perché non contempla l’idea di doverlo fare.
«Sì, Denise, sono rientrata», disse al telefono, sedendosi con precisione sul bordo del letto, proprio sopra di me.
Le molle scricchiolarono e io mi schiacciai ancora di più contro il pavimento, trattenendo un gemito.
«No, assolutamente no. La ragazza si è rivelata… docile. Fin troppo. Marcus dice che è praticamente un’orfana.» Fece una breve pausa, come se stesse assaporando la parola. «Il padre? Un ingegnerucolo in fabbrica. Uno che a malapena arriva a fine mese.»
Mi si gelò il sangue.
Mio padre era sì un ingegnere. Ma non un “ingegnerucolo”. Era responsabile della progettazione alla Kinetic Designs LLC, un’azienda nel settore della difesa. Solo che lui era un uomo riservato, allergico alla vanità e alle medaglie appuntate sul petto. E io, davanti a Veronica, non avevo mai sentito la necessità di sfilare le nostre credenziali come trofei.
«Sono andata personalmente a vedere dove vive», continuò lei, con voce soddisfatta. «Un tugurio in un palazzo fatiscente alla periferia di Decatur. Una vergogna. Ma adesso il mio Marcus ha il coltello dalla parte del manico.»
Quel “tugurio” era l’appartamento di zia Clara. Un posto vecchio, sì, ma pieno di ricordi: mio padre ci era cresciuto, e lo teneva per affetto. In realtà noi vivevamo in un ampio trilocale a Buckhead, ad Atlanta. Ma Veronica non lo sapeva. E capii, con un brivido, che quel dettaglio era stato scambiato per debolezza.
«Capisci, Denise? Il piano è semplice.» Sentii il clic di un accendino. Marcus mi aveva giurato che sua madre non fumava più da anni. «Vivrà con lui sei mesi, un anno al massimo. Poi Marcus inizierà a dire che non sono compatibili. Io farò la mia parte: dirò che la nuora non mi rispetta, che risponde male, che non sa cucinare, che tiene la casa come una stalla… insomma, la solita routine.»
Mi si strinse lo stomaco.
«Si separeranno in modo “amichevole”. E il condominio — che ora è intestato a lei, ovviamente — ce lo prendiamo in tribunale. I soldi li ha messi Marcus. Abbiamo le ricevute.» La sua voce diventò più bassa, più feroce. «E poi lei non farà storie. Cosa vuoi che faccia una ragazzetta di campagna contro di noi?»
Mi mancò l’aria.
Il condominio.
Il mio condominio.
Quello su cui Marcus aveva insistito perché risultasse solo a mio nome, con quella faccia dolce e le parole giuste: Così ti sentirai al sicuro. È tuo.
Era tutto un teatro. E io avevo applaudito.
Il telefono di Veronica squillò di nuovo.
«Pronto, Marcus. Sì, figliolo… sono nella tua stanza.» Un sorriso le passò nella voce come una lama. «No, tua mogliettina non c’è. Probabilmente è fuori a festeggiare. Comunque non può più scappare, ormai. Anello al dito, timbro sul certificato. Affare fatto. L’uccellino è in gabbia.»
Chiusi gli occhi, stringendo i denti così forte che mi fece male la mandibola.
«Ricordati ciò che ci siamo detti», continuò lei. «Niente debolezze dal primo giorno. Deve capire chi comanda. E non cedere alle lacrime. Sono tutte uguali: gli dai un dito e ti prendono il braccio.»
Una risatina cattiva. Poi il fruscio di passi.
«Apro la finestra, così non si lamenta per il fumo…» borbottò, quasi divertita dalla propria crudeltà.
E infine uscì.
Rimasi immobile sotto il letto per un tempo che non seppi misurare. Non tremavo per il freddo: tremavo per il disgusto, per la rabbia, per quel dolore lucido che arriva quando ti rendi conto che l’amore che credevi vero era solo un’esca.
Quando finalmente strisciai fuori, l’abito era impolverato, il velo strappato. Ma non importava più nulla.
Mi sedetti sul pavimento e mi abbracciai le ginocchia.
Per un attimo pensai di scappare. Prendere la borsa, uscire in piena notte, ancora in vestito da sposa, lasciarmi tutto alle spalle.
Poi, dentro di me, si accese qualcosa di diverso: non un pianto, non un crollo.
Una calma fredda.
«No», sussurrai, alzandomi in piedi. «Avete sbagliato persona.»
Presi la borsetta da sposa e tirai fuori il telefono. Avevo avviato il registratore vocale quando avevo sentito entrare qualcuno — all’inizio, per immortalare la reazione di Marcus allo scherzo. Adesso, quella registrazione era diventata un’arma.
Ma un’arma non basta, pensai.
Mi serviva un arsenale.
Mi cambiai in fretta: jeans, maglione. Ripiegai l’abito e lo infilai nell’armadio come si chiude un capitolo.
Poi aprii il portatile.
La prima chiamata fu a mio padre.
Rispose al primo squillo, nonostante l’ora. «Principessa… perché sei sveglia? È la tua notte di nozze.»
«Papà, devo parlarti seriamente.» La mia voce uscì più stabile di quanto mi sentissi. «Ti ricordi quando mi avevi proposto di intestarmi la tua quota dell’azienda?»
Un silenzio pieno. Poi: «Abigail… che succede? Quel cretino ti ha fatto qualcosa?»
«Non ancora. Ma mi serve una garanzia. Domattina puoi venire dal notaio appena apre?»
«Ci vengo anche adesso, se serve.» La sua voce si fece dura. «E trasferiamo pure l’immobile di zia Clara a tuo nome. Ho i documenti pronti.»
Sentii un nodo sciogliersi, solo un poco. «Grazie. Ti spiegherò tutto dopo.»
«Non serve.» Un respiro. «Dal giorno in cui ho visto Marcus ho capito che era un opportunista. E sua madre… lasciamo perdere. Tu però non volevi ascoltarmi.»
«Non era amore, papà.» La frase mi uscì come un’ammissione amara. «O almeno… non da parte loro.»
La seconda chiamata fu a Celia, la mia migliore amica e avvocata.
«Celia, scusami per l’ora. Ho bisogno di una risposta chiara: se un condominio è intestato a me e l’ho comprato prima del matrimonio, mio marito può vantare diritti?»
«Abby… ma vi siete sposati oggi.» Il suo tono era allarmato. «Stai già pensando al divorzio?»
«Celia, per favore.»
Lei sospirò. «Se è stato acquistato prima delle nozze ed è intestato solo a te, in genere è un bene personale. Lui potrebbe provare a reclamare qualcosa solo dimostrando investimenti in lavori o migliorie. Perché?»
«Te lo racconto domani. Puoi venire verso le dieci?»
«Sì. E tu, nel frattempo, respira. Non sei sola.»
Quando chiusi la chiamata, sentii la porta d’ingresso sbattere.
Marcus era tornato.
«Abby? Dove sei, piccola? Ho girato mezza città per cercarti!» La sua voce era “preoccupata”, ma io adesso sentivo la recita tra le sillabe.
Scesi le scale con il volto controllato. «Ciao, amore. Mi ero cambiata e stavo sistemando un po’.»
Mi abbracciò, mi baciò, e io dovetti resistere all’istinto di tirarmi indietro come se mi avesse sfiorata una cosa sporca.
«Perché sei così fredda? Hai freddo?»
«Sono solo stanca. Andiamo a dormire. Domani sarà una giornata intensa.»
«Intensa? Siamo in ferie per due settimane.»
«Già.» Sorrisi appena. «Ah, comunque tua madre è passata. Forse ti ha lasciato qualcosa.»
Lo vidi irrigidirsi, solo un istante. «Mia madre? Perché?»
«Non lo so. Ero sotto la doccia.»
Mentii con facilità. E fu la prima cosa che mi spaventò di me stessa.
Quella notte Marcus crollò nel sonno quasi subito. Io rimasi a fissare il soffitto, con gli occhi asciutti e la mente in fiamme.
Due settimane.
Due settimane per mettere al sicuro tutto.
Due settimane per trasformare il loro gioco in una lezione.
E sapevo già come.
La mattina dopo, Marcus mi svegliò con un bacio. «Buongiorno, signora Harrison», canticchiò.
Per poco non lo corressi: sul passaporto sono ancora Miller. Ma deglutii e sorrisi. «Buongiorno. Vuoi un caffè?»
«Certo. E magari un’omelette. Mamma dice che sei una cuoca fantastica.»
Quasi mi venne da ridere: la sera prima, la stessa “mamma” mi aveva già preparato il ruolo della nuora incapace.
«Va bene», dissi, docile. «Vai a farti la doccia. Io preparo la colazione.»
Mentre lui cantava sotto l’acqua, accesi il registratore e lo nascosi tra le spezie.
Poi presi dal freezer un pacco di pancake surgelati, li scaldai e li servii con panna montata e marmellata. Niente omelette. Per principio.
Marcus assaggiò e fece una smorfia. «Sono… strani.»
«Ricetta nuova.» Sorsi il caffè con calma. «Light.»
Lui annuì, poi buttò lì, come se fosse un’idea innocente: «Senti, pensavo… perché non mi aggiungi all’atto del condominio? Così mi occupo io delle riparazioni, delle pratiche…»
Appoggiai la tazza con lentezza. «E perché? Pensi che io non sia capace?»
«No, no… è solo che… insomma, io sono l’uomo. Il capofamiglia.»
Ah.
Eccolo, il vero Marcus. Quello che Veronica aveva modellato a sua immagine.
«Certo, amore.» Sorrisi dolcemente. «Ne parliamo più tardi. Oggi vedo Celia.»
La sua bocca si irrigidì. «Quale Celia?»
«La conosci. È da un po’ che dobbiamo vederci.»
«Va bene.» Ma il sospetto gli rimase negli occhi. «Non fare tardi. Stasera mamma viene a cena. Prepara qualcosa di buono. La prima impressione è importante.»
Abbassai lo sguardo come una moglie obbediente. «Certo. Che cosa le piace?»
«Mangia di tutto.»
Trattenni un sorriso. Perfetto.
Appena uscì, controllai la registrazione: limpida, perfetta. Soprattutto quel pezzo sul “capofamiglia”.
Alle dieci Celia era da me. «Allora», disse entrando, «che incendio devo spegnere?»
Le feci ascoltare la voce di Veronica, poi quella di Marcus.
Celia rimase in silenzio, con gli occhi che si allargavano sempre di più. «Abby… questa è frode. Possiamo denunciarli.»
«Possiamo.» Il mio tono era calmo, quasi estraneo. «Ma io voglio anche che ricordino questa lezione per tutta la vita.»
Lei mi guardò, e un lampo di approvazione le attraversò il viso. «Finalmente. È uscita la leonessa.»
Poi arrivò mio padre con il notaio.
In poche ore, i documenti furono firmati, i conti messi in sicurezza, le quote dell’azienda sistemate.
Quando mio padre ascoltò la registrazione, il suo volto si fece di pietra. «I diavoli», sussurrò. Poi mi strinse la spalla. «Sei forte come tua madre. Lei sarebbe fiera di te.»
Quella sera, andai al supermercato con una lista precisa.
Durelli di pollo. Riso. Margarina. E, con una soddisfazione quasi infantile, una scatoletta di carne in gelatina sospettosamente vecchia.
Se Veronica sosteneva che non sapevo cucinare, avrebbe avuto uno spettacolo.
Preparai un brodo così speziato da far lacrimare gli occhi. Feci scuocere il riso fino a trasformarlo in colla. Miscelai la carne con patate bollite e maionese, creando un’“insalata” dall’aspetto discutibile. E infine una torta di savoiardi con crema di margarina e zucchero che sembrava un esperimento andato male.
Quando Veronica arrivò, impeccabile nel suo tailleur e profumata come una boutique, mi lanciò un bacio nell’aria. «Abby, cara! Che cosa hai preparato? Non ho mangiato niente tutto il giorno. Sai, la dieta…»
Le servii il brodo. Tossì al primo sorso.
«Spezie», dissi innocente. «Ricetta della nonna. Di campagna.»
Le narici di Veronica tremarono, come se la parola le fosse un insulto.
Non toccò quasi nulla. E alla torta si alzò, pallida. «Mi sento… strana. Dev’essere lo stress. Marcus, accompagnami.»
Dalla finestra li vidi: lei gesticolava furiosamente, lui annuiva e si giustificava. Poi l’auto si allontanò.
Marcus rientrò con la faccia chiusa. «Abby… che diavolo è stato?»
«Che intendi? Ho cucinato tutto il giorno.»
«L’hai fatto apposta. Hai rovinato la cena.»
Abbassai lo sguardo e lasciai che una lacrima mi scivolasse giù, perfetta, dosata. «Come puoi dirmi una cosa così?»
Lui si ammorbidì immediatamente. «Scusa, tesoro. È solo che mamma è abituata a un certo standard…»
«Ho capito.» Tirai su col naso. «Allora non cucinerò più per lei. Può portarsi il cibo da casa.»
«Dai… domani ti porto a cena fuori.»
«Vedremo», sussurrai, e mi ritirai in camera.
Nei giorni successivi Marcus iniziò a premere sempre di più: controllava le spese, criticava dettagli inutili, infilava continuamente discorsi sulla “sua” quota nel condominio. Io recitavo la moglie docile e un po’ ferita, mentre registravo tutto.
Una sera, mi regalò l’audio più prezioso.
Era in salotto con Malik, birra in mano.
«Immagina, Malik. Mia madre ha messo in piedi un piano per prendersi il condominio di Abby. Geniale, no?»
Risero.
«E lei è ricca o cosa?»
«Macché. Normale. Però l’immobile è intestato a lei e i soldi li ho messi io. Tra un annetto divorzio e mi tengo il posto. Facile.»
«E se ti denuncia?»
Marcus sbuffò. «Con cosa? Suo padre è un poveraccio. Mia madre e io ce la mangiamo in due giorni.»
Seduta nella stanza accanto, sorrisi nel buio. Poveraccio… certo.
Dopo una settimana, avevo abbastanza.
Telefonai a Veronica. «Volevo scusarmi per quella cena. Potresti venire domani? Vorrei fare qualcosa di speciale. Voglio migliorare il nostro rapporto… Sei come una seconda madre per me.»
La lusinga fu la chiave. Accettò.
Poi chiamai Celia. «Sei pronta per domani?»
«Prontissima.» La sua voce aveva un sorriso dentro. «Ho i documenti. E un regalino per tua suocera.»
«Che regalo?»
«Lo scoprirai. È… esplosivo.»
Suggerii a Marcus di invitare anche amici: Malik con Talia, e Amare. Lui si illuminò. «Ottima idea. Mamma sarà contenta. Le piacciono.»
Il giorno dopo non lasciai nulla al caso: catering buono, tavola elegante, fiori freschi.
Quando Veronica entrò e vide tutto, sembrò quasi soddisfatta. «Ecco, Abby. Questo sì che è uno standard.»
Tra brindisi e complimenti, l’atmosfera si fece più leggera. Veronica iniziò persino a raccontare aneddoti su Marcus, come se fosse una regina benevola che concede storie ai suoi sudditi.
«Ricordi quando avevi cinque anni», rise, «e dicevi che avresti sposato solo una principessa? Certo… non hai trovato una principessa, ma Abby non è male lo stesso.»
Quel “non è male” cadde sul tavolo come una briciola avvelenata.
Io mi alzai in piedi con il bicchiere. «Voglio fare un brindisi alla famiglia. A onestà, fiducia e amore.»
Alzarono tutti i calici.
«E ora», continuai, «vi faccio sentire una cosa. Una registrazione. L’ho fatta per caso il giorno del matrimonio.»
Premetti “play”.
Nella stanza si fece silenzio. Un silenzio così denso che si sentiva perfino il ronzio del frigorifero.
La voce di Veronica uscì dagli altoparlanti, chiara e tagliente: «Il piano è semplice… ci separiamo senza scandali e ci teniamo il condominio.»
Veronica impallidì.
Marcus balzò in piedi. «Abby! Da dove viene questa cosa?!»
«Ero sotto il letto», dissi dolcemente. «Volevo farti uno scherzo. Ma mi pare che lo scherzo lo stavate facendo voi.»
«È falsa!» strillò Veronica. «Una montatura!»
«Davvero?» Feci partire l’altra registrazione. La voce di Marcus con Malik. Le risate. La sicurezza.
Talia guardò Malik come se lo vedesse per la prima volta. E non era un complimento.
Suonò il campanello.
Entrò Celia con una cartella. «Buonasera. Sono l’avvocata Celia Brooks. Veronica, questo è per lei.»
Le porse una busta.
Veronica la prese con mani tremanti. «Cos’è?»
«Una denuncia.» Celia parlò con freddezza chirurgica. «E, già che ci siamo, ho scoperto una cosa curiosa: la morte di suo marito… non sembra così “naturale” come lei ha sempre raccontato.»
Era un bluff. Un bluff enorme.
Ma Veronica non lo sapeva.
Sbiancò ancora, come se avesse visto un fantasma, e crollò sulla sedia.
«Non è vero!» balbettò. «Io non ho fatto niente!»
Marcus era pietra. «Mamma… è vero?»
Io mi avvicinai e posai davanti a lui una cartellina. «Qui ci sono i bonifici dal mio conto al tuo. I soldi con cui hai pagato il condominio… i miei soldi. E qui ci sono documenti che tua madre non ha mai immaginato: la posizione reale di mio padre, gli atti della nostra vera casa ad Atlanta, la prova che non sono una “ragazzetta di campagna” senza appoggi.»
Marcus deglutì, incapace di parlare.
«Potrei chiamare la polizia adesso», aggiunsi. «Potrei farvi a pezzi legalmente. Ma non lo farò.»
«Perché?» La sua voce era un sussurro.
Lo guardai senza odio. Peggio: senza più amore.
«Perché io non sono come voi.» Inspirai lentamente. «Ecco cosa succederà: Veronica se ne va adesso. Sparisce dalla mia vita. E se io dovessi rivederla anche solo una volta, o sentire che tu hai avuto contatti con lei… allora consegno tutto alla polizia. Registrazioni, bonifici, prove. Tutto.»
Veronica si alzò barcollando.
Marcus, con la voce spezzata, disse solo: «Vai, mamma. Vai.»
Lei uscì sbattendo la porta.
Gli ospiti si alzarono uno dopo l’altro, sconvolti. Talia trascinò Malik fuori con lo sguardo di chi ha appena preso una decisione. Amare borbottò un saluto e sparì.
Restammo io, Marcus e Celia.
«Abby, io…» iniziò lui.
«No.» Alzai una mano. «Non dire niente. Fai le valigie e vai. Domani chiediamo il divorzio.»
«Ma… non possiamo provare a sistemare?»
Sorrisi appena, senza gioia. «Sistemare cosa? Il fatto che mi hai tradita? Che mi hai scelta perché pensavi fossi una preda facile? Che ti sei messo d’accordo con tua madre per derubarmi? No, Marcus. Questo non si sistema.»
Se ne andò quella notte stessa.
E solo quando la porta si chiuse davvero, io mi permisi di crollare. Non davanti a loro, non durante la recita. Solo adesso, tra le braccia di Celia.
«Sei stata incredibile», mormorò lei. «Una guerriera.»
Scossi la testa, con le lacrime che finalmente uscivano. «Io lo amavo. O almeno… credevo di amarlo.»
«Lo so», disse Celia. «Ma è meglio scoprire la verità adesso, non tra anni.»
Il divorzio fu rapido, pulito. Marcus non chiese nulla. Forse per paura dello scandalo, forse perché finalmente aveva capito che non avrebbe vinto.
Veronica sparì davvero. Si parlava di una sorella a Savannah, di una vita ricominciata lontano. Ma non mi importava.
Io rimasi nel mio condominio.
Con le ferite, sì.
E con una forza nuova.
Una forza che, fino a quella notte sotto il letto, non avevo nemmeno saputo di possedere.