Madre altezzosa deride mia nonna perché fa la bidella a scuola – pochi minuti dopo riceve una lezione che non scorderà mai

Mia nonna ha passato anni a lucidare i pavimenti del mio liceo, una presenza silenziosa che nessuno notava davvero, soprattutto chi si credeva importante. Ma una sera, dopo lo spettacolo di fine anno, una madre piena di sé, con gli stivali di marca e l’aria da regina, ha deciso di ricordarle “qual era il suo posto”. Quello che è successo dopo le è rimasto addosso come una cicatrice. A lei, e anche a me. Ho 16 anni e quella sera ho capito che i soldi non misurano la dignità di una persona… ma rendono alcuni convinti di poterla comprare.

In casa nostra non è mai girato molto denaro. Mamma lavora nella biblioteca comunale, immersa ogni giorno fra romanzi e saggi che non potrebbe mai permettersi di acquistare. Passa le ore a registrare libri per gli altri, e quando torna a casa è così stanca che non ha nemmeno le forze per aprirne uno per sé. Papà se n’è andato quando avevo otto anni. Per un po’ ha chiamato ogni tanto, poi le telefonate si sono diradate, fino a sparire del tutto due anni dopo. È stato come se avesse cancellato il nostro numero insieme a quel poco di coscienza che gli restava.

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Così siamo rimaste in tre: io, mamma e nonna Martha.

La nonna lavora alla Scottsville High da quando ho memoria. È la bidella. Passa il mocio nei corridoi dopo l’ultima campanella, svuota cestini stracolmi e cancella con la spugna la disattenzione di centinaia di adolescenti che le sfilano accanto senza neppure incrociare il suo sguardo. E nonostante tutto questo, trova ancora l’energia per alzarsi il sabato mattina e prepararmi i pancake, sempre con le gocce di cioccolato in più, perché si ricorda — sempre — come li preferisco.

Da bambina, mi sembrava magico che conoscesse ogni centimetro della scuola. Mi parlava del fontanello “segreto” da cui usciva l’acqua più fresca, dell’armadietto che si incastrava e si apriva solo con un colpetto nel punto giusto. Sapeva quale bagno aveva la luce migliore e su quale scala l’eco rimbombava di più. Mi sentivo come se avessi una mappa nascosta del mio stesso mondo.

Poi, in quarta elementare, le cose sono cambiate.

I compagni hanno iniziato a bisbigliare.
«Tua nonna è quella che pulisce, vero?» chiedevano, con quella voce melliflua che non capivo ancora, ma che il mio stomaco riconosceva come cattiveria. Alcuni lasciavano apposta cartacce e briciole accanto al mio banco, poi ridacchiavano:
«Tanto ci pensa tua nonna, no?»

Altri, quando la vedevano col mocio in mano, cambiavano corridoio come se passarle vicino potesse sporcarli davanti a qualcuno.

Ogni volta era una fitta. Sempre.

Eppure, non mi sono mai vergognata di lei. Mai. Perché vergognarmi avrebbe voluto dire accettare che avessero ragione, e io sapevo che non era così.

La nonna è la persona più gentile che abbia mai conosciuto. Ricorda i compleanni di tutti, porta biscotti fatti in casa al vigile davanti alla scuola, una volta è rimasta fino a tardi per aiutare un’insegnante a recuperare la fede nuziale finita in un cassonetto. Nei weekend fa volontariato al centro comunitario. A ogni Giorno del Ringraziamento, mette da parte qualche dollaro per la banca del cibo.
Questa è lei. Ma per alcuni resta solo “la donna delle pulizie”.

«Non mostrare che ti fa soffrire, tesoro» mi diceva, quando tornavo a casa più appesantita dall’umiliazione che dai libri. «Chi si prende gioco del lavoro onesto non fa che mettere in vetrina il proprio vuoto.»

Annuii spesso, ma dentro ribollivo. Ero furiosa con loro, ma anche con un mondo in cui lei doveva consolare me, quando era lei quella mancata di rispetto.

«Tu lavori più di tutti i loro genitori messi insieme» le rispondevo.

Lei sorrideva appena, passandomi la mano tra i capelli. «Può darsi. Ma la fatica non è la prima cosa che certa gente sceglie di vedere.»

La settimana scorsa alla Scottsville c’è stato il solito spettacolo di talenti annuale. È l’evento dell’anno: i genitori si presentano come se stessero andando a una serata di gala, non in una palestra di liceo. Immagina: borse firmate, profumi talmente forti da farti girare la testa, flash che rimbalzano su gioielli che probabilmente valgono più del nostro affitto di tre mesi.

Era tutto esagerato. Le mamme si studiavano a vicenda gli outfit nell’atrio, i padri guardavano l’orologio come se da un momento all’altro dovessero essere altrove, in posti “più importanti”. I ragazzi correvano avanti e indietro in costumi che da soli valevano più di tutto il mio guardaroba.

Io guardavo dagli spalti mentre i compagni cantavano fuori tempo e ballavano ognuno a modo suo. Non sembrava solo uno spettacolo sul palco: tutto, lì dentro, era recita. Finito lo show, i ragazzi sono tornati dietro le quinte a cambiarsi, mentre i genitori si trattenevano nel corridoio, radunandosi a gruppetti per discutere chi “aveva talento” e chi meritava gli applausi più lunghi.

Io me ne sono andata prima. Avevo dei compiti da fare e, soprattutto, non reggevo un altro minuto di quella sfilata di vanità.

Più tardi, in cucina, mentre la nonna metteva l’acqua sul fuoco per il tè, mi ha raccontato cosa era successo dopo che me n’ero andata.

«Ho cominciato il turno verso le sette» ha raccontato, la voce calma, mentre l’aroma di camomilla si mescolava a quello di limone che aggiunge sempre. «Volevo finire il corridoio principale in tempo per prendere l’autobus delle 19:30.»

L’ho osservata bene. Non sembrava arrabbiata. Se possibile, quasi divertita.

«Stavo passando il mocio vicino agli armadietti quando una donna si è piantata davanti a me» ha continuato, sedendosi al tavolo. «Alta, tutto in ordine. I capelli perfetti, la pelliccia addosso anche se non fa neppure freddo. E quegli stivali… Kate, solo a guardarli capivi che costavano quanto uno stipendio intero.»

«E cosa ti ha detto?» ho chiesto, già con un nodo allo stomaco.

La nonna ha allargato le labbra in un mezzo sorriso che non toccava gli occhi. «Ha detto: “Ma che carino.”»

Il modo in cui ha imitato quel tono finto-dolce mi ha fatto irrigidire.

«L’ha detto abbastanza forte perché lo sentissero tutte le sue amiche» ha proseguito. «Poi mi ha guardata dall’alto in basso, come se fossi qualcosa rimasto attaccato alla suola dei suoi stivali, e ha aggiunto: “Fai attenzione, eh? Questi stivali probabilmente costano più di quello che guadagni in un anno.”»

Mi si sono strette le dita intorno alla tazza. «Non ci credo.»

«Oh, invece sì» ha confermato lei, bevendo un sorso. «E non è finita lì. Con quel sorriso falso, ha aggiunto: “Deve essere una bella sensazione restare qui anche dopo il diploma, eh?”»

Mi è venuta la nausea. «E le altre?»

«Ridevano» ha detto piano. «Risatine sottili, di quelle che ti graffiano. Come se fossi io il punto finale della loro barzelletta.»

«E poi?» ho chiesto, sporgendomi in avanti, dimenticandomi perfino del tè.

«Ho continuato a passare il mocio» ha detto la nonna. «Gli occhi bassi, la faccia tranquilla. Gente così vive per la reazione, Kate. È il loro carburante. Se gliela dai, hai perso. E io non avevo nessuna intenzione di regalarle quella soddisfazione.»

«Ma non è giusto, nonna. Non dovresti solo ingoiare e andare avanti.»

«Lo so, tesoro» ha annuito. «Ma in quel momento, il modo più forte che avevo per rispondere era restare calma. Ho pensato: “Lasciala fare la grande. Prima o poi, la scena le si ritorce contro”.»

Scossi la testa, con gli occhi lucidi di rabbia. «Non merita di sentirsi grande.»

«Infatti» ha sospirato. «E infatti la vita ci ha messo del suo.»

Si è fermata un attimo, e un sorriso le è tornato, stavolta più vero.

«All’improvviso il corridoio è diventato silenzioso» ha ripreso. «Quelle risatine si sono spente tutte insieme. Ho alzato lo sguardo e a pochi passi da noi c’era un ragazzino. Avrà avuto undici, forse dodici anni. Aveva ancora il costume addosso, teneva stretto fra le mani un trofeo dello spettacolo. La giacchetta gli stava un po’ larga.»

«Era suo figlio» ha aggiunto, e la voce le si è fatta più dolce. «Era tornato dal backstage per cercarla. E Kate… l’espressione che aveva quando ha capito cosa aveva appena sentito dire a sua madre…» Si è interrotta un istante, come se rivivesse la scena.

«Com’era?» ho chiesto piano.

«Come se qualcuno gli avesse tolto di colpo un’illusione» ha detto. «Si è avvicinato e ha detto, con voce abbastanza forte da farsi sentire da tutti: “Mamma, perché sei cattiva con lei? Mi dici sempre di rispettare chi lavora duro. Lei sta solo pulendo, non sta facendo niente di male.”»

Sono rimasta senza parole. «L’ha detto davvero? Davanti a tutti? A sua madre?»

«Proprio così» ha confermato. «È calato un silenzio che potevi sentire il rumore di una gomma da masticare che cade. Tutti quei genitori che ridevano o facevano finta di non vedere, sono rimasti immobili.»

«Lei ha cercato di sdrammatizzare» ha continuato, tornando a imitare il tono zuccheroso. «“Ma amore, stavo solo scherzando…”»

«E lui?» ho chiesto, col fiato sospeso.

«Non le ha dato scampo» ha detto la nonna. «L’ha guardata dritta negli occhi e ha risposto: “Non fa ridere. Ti arrabbieresti se qualcuno parlasse così di nonna.”»

Mi sono venuti i brividi. «E lei cosa ha fatto?»

«È diventata rossa come il suo rossetto» ha detto la nonna. «La gente guardava, qualcuno bisbigliava. Un’insegnante si è fermata ad osservare la scena. Quella donna avrebbe voluto sprofondare. E, credimi, se il pavimento si fosse aperto, le avrei pure rovinato il lavoro che avevo appena finito di fare.»

Scoppiai a ridere, nonostante tutto. «Nonna!»

«Che c’è?» rise anche lei. «Un po’ di ironia me la posso concedere.»

«E dopo?» insistetti.

L’espressione della nonna si è fatta tenera. «Il ragazzo si è girato verso di me. Stringeva il trofeo così forte che gli erano diventate bianche le nocche. L’ha poggiato a terra e ha detto: “Mi dispiace per la mia mamma. Ha sbagliato. Ne parlerò con lei a casa, te lo prometto.”»

La voce della nonna si è abbassata. «In quel momento sembrava più grande dei suoi anni. Come se avesse capito qualcosa che la madre, da adulta, aveva dimenticato: il minimo sindacale di umanità.»

Ha fatto una pausa, poi ha aggiunto: «E poi qualcuno ha cominciato ad applaudire. Uno solo, all’inizio. Poi un altro. E un altro ancora. Nel giro di pochi secondi, tutto il corridoio stava applaudendo un ragazzino che aveva scelto di difendere una bidella. Me.»

«La madre gli ha afferrato la mano e se n’è andata in fretta» ha detto. «La faccia in fiamme, gli stivali costosi che ticchettavano sul pavimento lucido. Alcune amiche l’hanno seguita, imbarazzate. Altre sono rimaste. E qualcuna è persino venuta da me a scusarsi.»

Ha annuito, vedendo il mio stupore. «Una mi ha detto che anche suo figlio aveva partecipato allo show e che si vergognava di non essere intervenuta. Un’altra ha aggiunto che aveva sempre apprezzato quanto tenessi pulita la scuola. Sono solo parole, lo so, ma per me hanno avuto peso.»

Siamo rimaste un momento in silenzio, le tazze ormai tiepide tra le mani. Fuori si sentivano passare le auto in strada, il cane del vicino che abbaiava. Rumori qualsiasi di una sera qualsiasi, che però non aveva più l’aria di essere “solo” una sera qualsiasi.

«Vuoi sapere la cosa più strana?» ha detto infine la nonna. «Non sono arrabbiata con lei. Paradossalmente, le sono persino grata.»

«Grata?» ho sgranato gli occhi. «Nonna, ha cercato di umiliarti.»

«Ci ha provato» mi ha corretto. «Ma non ci è riuscita. E sono grata soprattutto a suo figlio. Perché, alla fine, è stata lei a crescerlo, no? Con tutto il suo bisogno di sentirsi superiore, in qualche modo ha tirato su un bambino che invece sa fare meglio. Che vede meglio. Questo mi dà speranza, Kate. Forse la prossima generazione sarà più gentile della nostra. Capirà cose che noi stiamo ancora cercando di imparare.»

Ho sentito gli occhi pizzicare. «Sono così fiera di te, nonna. E hai ragione: nessuno dovrebbe essere trattato così.»

Ha annuito piano. «È vero. E magari la prossima volta sarò io a parlare per prima. A trovare la voce prima che qualcun altro debba prestarmi la sua.»

«E cosa diresti?» le ho chiesto.

Ci ha pensato un attimo. «Forse qualcosa tipo: “Mi dispiace che tu abbia bisogno di misurare il tuo valore dal prezzo dei tuoi stivali. Io misuro il mio dalla gentilezza che porto nel mondo. E su quella scala, signora, sei in debito.”»

Ho sorriso. «Perfetto.»

Lei ha alzato le spalle. «Ho avuto qualche ora per pensarci. Sul momento magari mi sarei limitata a un discorsetto sul rispetto per ogni lavoro. Ma una cosa è sicura: la prossima volta non starò zitta.»

Le ho stretto la mano. «E io sarò lì, accanto a te.»

La nonna ha sorriso, quel sorriso che ha visto tanto, troppo, ma che ancora sceglie la speranza. «Lo so, tesoro. Sei sempre dalla mia parte.»

La nonna passa il mocio, svuota i cestini, raccoglie il disordine che tutti lasciano dietro di sé senza pensarci. Torna a casa coi piedi gonfi, la schiena a pezzi e le mani rovinate dai detergenti.

Ma è anche quella che fa i pancake con le gocce di cioccolato extra. Che si ricorda i compleanni. Che rovista nei bidoni per restituire una fede smarrita. Che trova il coraggio di difendere gli altri anche quando per sé stessa ne ha di meno.

E quel ragazzino, chiunque sia, ha visto oltre il mocio, oltre la divisa. Ha visto la persona. Spero che non dimentichi mai quello che ha fatto quella sera. E spero che sua madre non lo dimentichi ancora di più.

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Perché, alla fine, gli stivali si graffiano, la pelliccia passa di moda. Ma il ricordo di un bambino che sceglie la compassione al posto della crudeltà? Quello resta. Continua a riecheggiare nei corridoi molto dopo che il pavimento è tornato a brillare.

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