Mia figlia, ancora poco più che una ragazzina, mi ha tolto il fiato quando è rientrata in casa spingendo un passeggino con dentro due neonati gemelli. A quell’arrivo sconvolgente, ne è seguito un altro ancora più inaspettato: una telefonata che ha cambiato le nostre vite.
Ricordo ogni dettaglio di quel pomeriggio. Savannah, appena quattordici anni, è comparsa sulla soglia del nostro salotto con le guance arrossate e le mani strette sul manico del passeggino.
«Sav, CHE COS’È QUELLO?!» urlai, sentendo il cuore schizzarmi in gola.
«Mamma, ti prego!» ansimò lei. «L’ho trovato sul marciapiede, da solo. Dentro ci sono dei bambini… GEMELLI. Non c’era nessuno intorno. Non potevo fare finta di niente e andarmene.»
Mi si gelò il sangue. Nel passeggino c’erano due piccolissimi neonati che dormivano avvolti in copertine leggere, troppo leggere per stare all’aperto. Il primo impulso fu il panico: polizia, servizi sociali, documenti, problemi. Ma poi vidi gli occhi di Savannah, grandi, impauriti, quasi colpevoli, e mi costrinsi a respirare.
Chiamammo la polizia e subito dopo i servizi sociali. Ci dissero che, per quella notte, i gemelli sarebbero rimasti con noi, in attesa che un assistente sociale arrivasse l’indomani.
Savannah non mollava il passeggino, come se avesse paura che qualcuno glielo strappasse via. «Mamma, ti prego… non possiamo lasciarli andare così» sussurrò. Non navigavamo certo nell’oro, anzi: ogni mese era una lotta. Eppure c’era qualcosa in quei due visini addormentati che rendeva impossibile voltarci dall’altra parte.
Alla fine, in un modo che ancora oggi mi sembra incredibile, ce l’abbiamo fatta. Gabriel e Grace sono cresciuti con noi, e piano piano la nostra casa ha trovato un nuovo equilibrio, una routine fatta di biberon, compiti, turni di lavoro e risate stanche a fine giornata.
Fu proprio quando le cose sembravano finalmente stabili che il telefono squillò.
Risposi quasi distrattamente, asciugandomi le mani sul grembiule. Dall’altra parte della linea c’era un uomo con una voce ferma e professionale che si presentò come avvocato.
Le otto parole che pronunciò dopo furono così assurde che per poco non lasciai cadere la cornetta.
Ripensandoci adesso, forse avrei dovuto intuire che la nostra storia non era destinata a essere ordinaria. Savannah era sempre stata diversa dalle altre ragazze della sua età. Mentre le sue amiche impazzivano per le boy band e i tutorial di trucco, lei passava le serate a bisbigliare preghiere nel cuscino.
«Dio, ti prego, mandami un fratellino o una sorellina» la sentivo mormorare, notte dopo notte, attraverso la porta socchiusa della sua stanza. «Prometto che sarò la sorella maggiore migliore del mondo. Aiuterò in tutto. Solo un bambino da amare, ti prego.» Ogni volta mi si stringeva il cuore.
Io e Mark avevamo provato per anni a darle quel fratellino o quella sorellina che desiderava tanto, ma dopo diversi aborti spontanei i medici ci dissero che non sarebbe successo. Glielo avevamo spiegato nel modo più delicato possibile, e lei aveva annuito, ma non aveva mai smesso davvero di sperare.
Non eravamo una famiglia ricca. Mark lavorava come addetto alla manutenzione al community college della zona, sempre in giro a sistemare tubature che perdevano o a ridipingere corridoi scrostati. Io tenevo corsi d’arte al centro ricreativo, insegnando ai bambini a pasticciare con acquerelli e argilla, cercando di tirar fuori la loro creatività anche quando mancavano i materiali.
Se quel giorno, anni prima, qualcuno mi avesse detto che un avvocato mi avrebbe parlato di milioni di dollari, gli avrei riso in faccia. E invece, proprio quando pensavo che la parte più sconvolgente della mia vita fosse stata vedere mia figlia tornare a casa con due neonati sconosciuti… il destino ha deciso di dimostrarmi quanto mi sbagliassi.