La sera nel reparto di chirurgia sembrava non finire mai: le ore si trascinavano lente, come se il tempo si fosse inceppato. L’aria era densa, quasi solida, impregnata di disinfettanti e di quell’odore pungente di medicine che si attacca alla pelle e ai vestiti.
In un angolo della piccola sala delle infermiere, rischiarata appena da una lampada tremolante, sedeva Ekaterina Sokolova. Magra, con i capelli biondi arruffati e due occhi che ardevano di vita, teneva sulle ginocchia un libro consumato — Čechov, il suo rifugio e la sua ancora.
Le sue giornate erano fatte di studio al collegio di medicina, le notti di turni interminabili come ausiliaria. Quei pochi minuti di silenzio erano per lei un dono raro. Leggere non era soltanto passatempo: era respiro, era protezione, era il modo di tenere viva la sua anima tra secchi d’acqua sporca e lenzuola da cambiare.
— Oh, oh… che vedo? Un circolo letterario? —
La voce tagliente ruppe l’aria. Katja sobbalzò, il libro le scivolò dalle mani. Davanti a lei si stagliava Pavel Igorevič, il primario. Appariva sempre così, senza rumore, come un predatore in attesa.
Piccolo di statura, stempiato, con il volto contratto in un’espressione perenne di irritazione, prese il libro tra due dita, come se temesse di sporcarsi.
— Čechov, eh? — sogghignò. — Molto poetico. Ma, Sokolova, non siete nel salotto di una contessa: siete in ospedale. Qui non vi paghiamo per sognare, ma per lavorare.
Katja si alzò lentamente. Nessuna paura, solo quel rancore sordo che da anni le scavava dentro.
— Primo: quello che mi pagano non basta nemmeno per il pane. Secondo: ho già finito il mio turno. Le stanze sono pulite, i pazienti accuditi. Credo di avere diritto a cinque minuti di pace.
Lui aggrottò le sopracciglia, la voce si fece più dura:
— Ah, quindi vuoi anche discutere con me? Attenta, ragazza: basta una parola e sparisci da qui senza neanche accorgertene!
In quel momento la porta si spalancò. Comparve Sveta, l’amica e collega di Katja. Si rese conto subito della tensione e intervenne con prontezza:
— Katja, presto! Il nonno della stanza sei sta male! — la prese per il braccio, rivolgendosi al primario con finta dolcezza: — Scusi, Pavel Igorevič, ci occupiamo subito della situazione.
Lontano da lui, Sveta serrò la presa sulla spalla dell’amica e sussurrò:
— Sei pazza? Perché lo provochi? Lo sai che ti può distruggere! Stai zitta, ti prego.
Katja abbassò lo sguardo, ma la sua voce fu ferma:
— Non posso tacere quando vedo che calpestano una persona. Lui non è un medico: è un carceriere.
— E allora? Le tue parole non cambieranno nulla. Ma a te rovineranno la vita. Devi essere più prudente.
Prudenza. La parola le lasciò un sorriso amaro sulle labbra. Per lei quel concetto aveva perso significato da tempo. Da quando, adolescente, aveva imparato che per sopravvivere bisognava rischiare, combattere, non chinare mai la testa.
[… segue la storia: il percorso di Katja, il matrimonio con Dmitrij, la guarigione della madre e il ritorno trionfale in ospedale come medico, mentre il vecchio primario, ormai umiliato, rassegna le dimissioni. La chiusura rimane invariata: la vera giustizia non è sempre vendetta, ma la silenziosa certezza di una superiore dignità.]