Era nel cuore della notte quando arrivai di corsa al pronto soccorso con Olivia, tre settimane appena. Aveva la febbre alta e piangeva senza tregua; io ero sfinita, spaventata e ancora dolorante dopo il cesareo. Pregavo solo che qualcuno ci desse una mano, quando dall’altro lato della sala un tizio con un Rolex decise di peggiorare tutto: ci lanciò uno sguardo sprezzante, ci chiamò “casi da carità” e pretese di passare davanti a tutti. Non avevo le forze per ribattere; tenevo mia figlia stretta e le mormoravo che sarebbe andato tutto bene.
Le porte automatiche si aprirono di scatto. Un medico oltrepassò l’uomo senza nemmeno guardarlo e si fermò davanti a me. «Neonata con febbre?», chiese, già infilando i guanti. L’altro protestò, farfugliando di dolori al petto; il medico lo gelò con una frase secca: «Il colpo rimediato sul green può aspettare. Una neonata con febbre è un’urgenza.» La sala esplose in un applauso spontaneo.
Dentro, il dottore visitò Olivia con una delicatezza infinita e mi rassicurò: una piccola infezione, niente di grave, si sarebbe risolta. L’infermiera arrivò con qualche pannolino donato, del latte in polvere e una copertina morbida. C’era anche un biglietto: “Ce la farai, mamma”.
Quando uscimmo, ore dopo, Olivia dormiva serena sul mio petto. L’uomo col Rolex era ancora lì, paonazzo e ignorato. Gli passai accanto con un sorriso appena accennato. Quella notte ho imparato una cosa che non dimenticherò: i soldi possono comprare un orologio di lusso, ma non compreranno mai la compassione.