Il rumore dei passi rimbalzava lungo i corridoi della villa, come se anche la casa trattenesse il respiro. Vladimir Timofeevič andava avanti e indietro con l’ansia addosso, la mente in subbuglio. Quando si fermò davanti al figlio, i suoi occhi duri si accesero di incredulità. Artem restava lì, immobile, con lo sguardo fermo e una calma che sembrava una sfida.
Vladimir inspirò a fondo, ma la pazienza gli si spezzò in gola.
«Artem… dimmi che sto capendo male. Hai ventidue anni. Ventidue. E tu… vuoi sposarti adesso?» La sua voce esplose nel silenzio, pesante come un colpo di tuono.
Artem non indietreggiò. Non abbassò gli occhi. Aveva appena pronunciato la frase capace di incrinare tutto ciò che suo padre aveva costruito e immaginato per lui. Ormai era fatto: certe parole, una volta dette, non si possono ritirare.
«Papà… Angela è incinta.» Parlò piano, ma ogni sillaba aveva la forza di un macigno.
Vladimir restò immobile, come se qualcuno gli avesse tolto il fiato. Fissò il figlio: giovane, asciutto, con quel baffo appena accennato e un’espressione fin troppo pulita per la tempesta che stava per scatenarsi. Sentì un nodo stringergli il petto. Non se l’aspettava. Non da Artem. Non dal suo orgoglio, dal “ragazzo perfetto” con la strada spianata davanti.
“È ancora un ragazzino,” pensò con amarezza. Eppure in quegli occhi vide qualcosa che non era ingenuità: era decisione.
«Lascia perdere.» La voce di Vladimir si fece gelida, tagliata. «Dimenticala. Viene da un villaggio. Ti troveremo una donna adatta. Una del nostro ambiente. Una che sappia stare al suo posto, nel nostro mondo.»
Non poteva accettarlo. Una ragazza di campagna. Una contadina. Per lui era quasi un affronto personale. Artem avrebbe dovuto vivere tra feste, contatti, salotti, successo. Non tra stivali infangati e strade di terra.
Vladimir riprese fiato e insistette, come se bastasse ripetere per rendere la realtà più docile.
«E poi perché adesso? Ti sei appena laureato. Devi pensare alla carriera. Alla famiglia ci si pensa più avanti. Trenta anni, almeno. Prima si costruisce il nome, poi il resto.»
Artem scosse lentamente la testa. La sua voce era bassa, ma piena di una tristezza composta.
«Papà… non è solo incinta. Aspetta dei trigemini. Tre bambini.» Fece una pausa, come per dare a quelle parole il tempo di atterrare. «Come farà da sola? Lì, in campagna? Io non posso voltarmi dall’altra parte.»
Il volto di Vladimir si oscurò. Alzò una mano, infastidito, come se stesse scacciando un pensiero fastidioso.
«E allora? Le dai dei soldi.» Parlava come si parla di un problema amministrativo. «Le sistemi la vita e finisce lì. Abbiamo mezzi, conoscenze… possiamo far sparire questa storia. Far sì che non diventi un ostacolo.»
Si avvicinò di un passo, lo sguardo calcolatore.
«Ma dei nipoti… da una ragazza di campagna?» Sputò le parole con disprezzo. «No. Questo, no.»
La frase colpì Artem come uno schiaffo vero. Gli bruciò dentro. Non era più una discussione su status o denaro. Era la differenza tra ciò che suo padre chiamava “decoro” e ciò che lui chiamava “vita”.
Vladimir alzò ulteriormente la voce, trascinato dall’ira e dal senso di controllo che gli stava scivolando tra le dita.
«Guardati! Sei giovane, intelligente, hai il mondo in mano. Potresti avere chiunque. E invece vuoi rovinarti per lei? Io ho già un posto pronto per te in azienda. Devi solo sederti sulla poltrona giusta e il denaro scorrerà come acqua.»
Ogni parola riempiva la stanza, ma Artem non si spezzò. Avvertì il peso del privilegio che gli veniva offerto come un cappio. Lui, però, aveva scelto.
«Io la amo.» Lo disse quasi in un sussurro, eppure era la frase più potente della serata. «E non la lascerò. Qualunque cosa tu decida di fare.»
Tre anni dopo
Il tempo era passato, lento e implacabile, portandosi via il clamore di quella lite e lasciando solo le conseguenze.
Artem e Angela vivevano in una casa piccola, semplice, lontana dalle luci della città e dalle promesse dorate. Non era una vita comoda. C’erano notti senza sonno, preoccupazioni, conti da far quadrare, mani stanche e schiene doloranti. Ma c’erano anche risate che riempivano le stanze, piccoli piedi che correvano sul pavimento, abbracci improvvisi e quella sensazione rara di essere, davvero, nel posto giusto.
I trigemini erano diventati il centro di tutto: tre caratteri diversi, tre voci, tre mondi in miniatura. Artem non aveva più lo sfarzo, né i ricevimenti, né le scorciatoie. Aveva qualcosa di più duro e più vero: una famiglia costruita giorno per giorno.
Poi, un pomeriggio, quando il sole calava dietro i campi e l’aria sapeva di terra e legna, qualcuno bussò alla porta.
Vladimir Timofeevič.
Era invecchiato, ma non abbastanza da perdere del tutto la sua altezza e la sua rigidità. Sul volto portava un sorriso incerto, quasi provato allo specchio prima di uscire. Era venuto dopo anni di silenzio — forse per giudicare, forse per punire con lo sguardo, forse per dire “avevo ragione”.
Ma appena entrò, le parole gli si fermarono in gola.
Vide tre bambini che giocavano senza paura, con la sicurezza di chi si sente al sicuro. Vide Angela, stanca ma luminosa, con uno sguardo che non chiedeva permesso a nessuno per esistere. Vide Artem, accanto a loro, con un’espressione che Vladimir non gli aveva mai visto addosso nella villa: una felicità piena, tranquilla, senza vetrine.
In quella casa modesta non c’era lusso. Eppure c’era calore. C’era unità. C’era una ricchezza che non si deposita in banca.
Vladimir rimase fermo, come se il mondo gli stesse finalmente mostrando un conto diverso da quello che conosceva. Capì, in silenzio, che suo figlio aveva trovato qualcosa che lui, con tutto il suo potere, non era mai riuscito a comprare.
E per la prima volta, senza applausi e senza pubblico, dovette ammettere a se stesso l’unica verità che faceva male davvero:
si era sbagliato.