Júlia Reis si schiacciò i polpastrelli sulle palpebre gonfie, come se potesse spremere via quel martello che le batteva dietro gli occhi, e accelerò il passo nel Terminal 2 di Guarulhos. Le sue sneakers, ormai stanche quanto lei, lasciavano un fruscio stridulo sul granito lucidato. Quel suono, ripetuto e insistente, le entrava nel cranio come un chiodo.
Sedici ore. Sedici ore senza una vera pausa, in terapia intensiva, a inseguire valori che salivano e crollavano come mare in tempesta, a dosare farmaci, a riempire scartoffie, a tenere il sangue freddo quando tutti intorno lo perdevano. E poi, la parte che nessuno mette nei protocolli: stringere la mano di Dona Alzira, un’anziana che tremava di paura e che, contro ogni previsione, aveva superato la notte.
Il telefono di Júlia – vetro crepato, batteria sempre sul filo – segnava le 5:15. Imbarco per Salvador, gate 42. Lei era ancora lontana, nei paraggi del 18. Solo l’idea di dover correre le faceva venire la nausea.
Eppure quel weekend era l’unica cosa che la teneva in piedi.
Due anni senza respirare davvero. Due anni a fare la madre, la sorella, il pilastro… dopo che i genitori erano spariti in un incidente sulla Rodovia dos Bandeirantes, lasciandole in mano un fratello adolescente, bollette, debiti e un silenzio che la sera pesava più del turno. Tre giorni di mare con Rafaela, l’amica di sempre. Tre giorni lontano dai bip dei monitor, dai fogli di terapia, dal senso di colpa che le stava incollato addosso come una seconda pelle.
Svoltò l’angolo con lo zaino vecchio che le rimbalzava sulla schiena. Le luci dell’aeroporto, viste attraverso la stanchezza, si allungavano in scie al neon. Gate 40. Gate 41. Júlia strinse gli occhi, provando a mettere a fuoco.
Gate 47.
Si fermò di colpo.
No. Non poteva essere. Il cervello, impastato, tentò di ricostruire numeri e direzioni, ma tutto scivolava come su sapone. Frugò nel telefono per aprire la carta d’imbarco, però non fece in tempo.
Una donna elegante, in divisa blu scuro, le sorrise accanto a un varco discreto, separato dal flusso principale.
— Señorita Paiva? — domandò con un tono perfetto, come se stesse ritrovando qualcuno che temevi di aver perso.
Júlia sbatté le palpebre.
— Io… non sono…
Un altro addetto, un uomo dai modi gentili, le posò una mano leggera sul gomito, già guidandola.
— Il signor Montovani era in pensiero. Temava che lei rimanesse bloccata nel traffico sulla Marginal. Facciamo l’imbarco rapido, lo slot di decollo è stretto.
“Signor Montovani”. “Paiva”. Parole che non significavano niente per lei e che, in quel momento, passarono attraverso il suo cervello stanco come aria.
Júlia provò a protestare, ma la frase le si ruppe in bocca. E prima che riuscisse a rimettere ordine tra le idee, era già dentro un finger riservato, lontana dal rumore, come se qualcuno avesse abbassato il volume del mondo.
È un errore. È un errore enorme.
Eppure… eppure una parte di lei, quella che voleva solo appoggiarsi da qualche parte e chiudere gli occhi, si aggrappò all’ipotesi più assurda: forse un upgrade. Forse Rafaela le aveva fatto la sorpresa che minacciava da anni con quelle benedette miglia.
Entrò nell’aereo.
E il fiato le rimase appeso in gola.
Quello non era un volo di linea. Non era nemmeno “un aereo”. Era un salotto che volava: poltrone di pelle color crema larghe quanto un divano, boiserie lucida che rifletteva una luce calda, un bar completo con bottiglie che parevano uscite da una vetrina di lusso. L’aria non sapeva di aria riciclata e plastica, ma di pelle nuova e caffè vero.
Vicino al finestrino, un uomo in abito scuro era seduto di spalle. La giacca gli cadeva addosso con una precisione quasi irritante, senza una piega fuori posto.
La porta si chiuse alle spalle di Júlia con un tonfo secco, definitivo.
Quello fu il momento in cui la stanchezza si incrinò e il panico le saltò addosso.
L’uomo si voltò. Occhi chiari, grigio-azzurri, taglienti. Trenta e poco più, lineamenti asciutti, quella bellezza “curata” che sembra casuale solo per chi non sa quanto costi esserlo.
La sua espressione cambiò, sorpresa autentica.
— Tu non sei Vanessa — disse.
Júlia strinse il telefono al petto come se fosse uno scudo.
— No. Io sono Júlia Reis. E… credo di essere salita sull’aereo sbagliato.
Lui la studiò, un secondo in più del necessario. Poi l’angolo della bocca accennò un movimento, quasi un sorriso trattenuto.
— Direi che è una conclusione ragionevole.
Fuori, i motori cominciarono a vibrare. Non un rombo assordante: un ronzio profondo, potente, che le fece tremare lo stomaco.
— Devo scendere — disse Júlia, la voce alta e sottile, come quando in reparto senti arrivare il peggio. — Subito. Io… devo essere su un volo per Salvador. La mia amica mi aspetta.
Lui sospirò, e quel sospiro aveva dentro la calma di chi è abituato a comandare cose molto più grandi di un imprevisto.
— Siamo già in fase di partenza. Autorizzazione ricevuta. — Le rivolse uno sguardo che, inspiegabilmente, sembrava divertito e infastidito insieme. — Il mio team, a quanto pare, ti ha scambiata per la mia accompagnatrice. “Donna giovane, di corsa e in ritardo”. Evidentemente, per loro bastava.
Le gambe di Júlia cedettero. Si lasciò cadere nella poltrona davanti a lui, morbida in un modo quasi indecente.
— Dove sta andando questo aereo? — chiese, e sentì la propria voce tremare.
— Parigi.
— Parigi… Francia?
Lui annuì come se avesse detto “Campinas”.
Júlia si passò una mano nei capelli, lo chignon sciolto, ciocche che le cadevano sul viso.
— Non è possibile. Io ho il turno lunedì sera. Ho mio fratello. Non ho soldi. Non ho… — si bloccò e frugò nello zaino con mani che tremavano — passaporto. Aspetta. Ce l’ho. Ce l’ho davvero. Ma non cambia niente!
L’uomo tese la mano, come se stessero iniziando un incontro di lavoro e non un disastro.
— Bruno Montovani.
Júlia gliela strinse per riflesso. L’educazione, in lei, era un automatismo. La sua stretta era calda, salda.
— È follia — mormorò.
— Su questo siamo d’accordo. — Bruno si appoggiò allo schienale. — Per completezza: Vanessa Paiva doveva venire con me. Modella. Ha cancellato all’ultimo minuto. E i miei… hanno deciso di colmare il vuoto con la prima persona che corrispondeva vagamente a una descrizione.
Júlia abbassò lo sguardo sui suoi jeans sbiaditi e sul maglione economico del Brás.
— Ti sembro una modella?
Bruno la guardò con attenzione, e quel modo di guardare le fece salire il calore al collo nonostante l’aria condizionata.
— Ti sembri a pezzi. Quando è stata l’ultima volta che hai dormito?
Júlia si arrese alla verità.
— Trenta ore fa. Lavoro in terapia intensiva. Una emergenza è diventata due… e poi è iniziato il turno regolare.
— E sei corsa qui direttamente dall’ospedale.
— Dovevano essere le mie prime vacanze in due anni — disse lei, e la frase le uscì con una tristezza che le fece male. — E invece… sono stata “rapita” per andare in Francia.
Bruno sollevò un sopracciglio.
— Tecnicamente sei salita da sola.
— Grazie. Molto rassicurante.
Una hostess comparve in silenzio, quasi senza attraversare lo spazio: vassoio con frutta fresca, formaggi dai nomi francesi, pane caldo. L’odore di burro sciolto le fece brontolare lo stomaco così forte che Júlia arrossì.
— Mangia — disse Bruno, come se fosse un ordine gentile. — E riposa. Sono undici ore di volo. Quando atterriamo a Le Bourget, ti organizzo subito il ritorno. Prima classe, qualunque compagnia. Salvador o San Paolo. È un mio errore, non tuo.
Júlia si asciugò gli occhi, sorprendendosi di avere lacrime.
— È anche colpa mia. Ho visto un numero e il cervello ha smesso di funzionare.
— La privazione di sonno è una droga pessima — disse lui, e per un attimo nella voce non c’era ironia, solo preoccupazione vera. — Lo so bene.
Júlia lo osservò meglio.
— Che lavoro fai?
— Tecnologia. Sicurezza software. Banche. Cybersecurity.
Disse tutto in poche parole, senza vanto. E anche quello era strano.
Mangiando a piccoli morsi, la conversazione cominciò a scorrere come se stessero cercando entrambi un appiglio nel reale. Bruno le chiese dell’ospedale, e Júlia finì per raccontare ciò che di solito non raccontava a nessuno: le notti che ti restano addosso, gli occhi dei pazienti, la sensazione di portarti la terapia intensiva in tasca anche quando non hai più il badge al collo.
— Perché infermieristica? — chiese lui, genuino.
Júlia deglutì.
— Mia nonna. Cancro. Quando ero al liceo. Le infermiere del pubblico… non avevano quasi niente, eppure riuscivano a rendere vivibile l’invivibile. Io volevo essere quella mano per qualcun altro. Mettere ordine nel caos.
Bruno rimase in silenzio, e quel silenzio non era imbarazzo: era rispetto.
— È… raro — disse piano. — Non nobile. Raro.
Júlia ricambiò con una domanda, più per restare sveglia che per curiosità.
— E tu? Perché la sicurezza?
Bruno girò lentamente il bicchiere tra le dita.
— Io e un amico. Daniel. Abbiamo iniziato in un garage, a Vila Mariana. Lui era ossessionato dalla privacy. Diceva che la vulnerabilità delle persone online era un’ingiustizia. Abbiamo provato a fare qualcosa.
Quell’uso del passato le graffiò l’intuito.
— “Era”?
Bruno annuì appena.
— È morto un anno fa. Patagonia. Arrampicata.
La voce restò controllata, ma Júlia riconobbe la crepa sotto la superficie. La riconosceva, perché ci viveva.
— Mi dispiace — disse lei. E non era una frase vuota.
Bruno la guardò e, per la prima volta, sembrò davvero stanco.
— I tuoi genitori… — aggiunse lui, collegando. — È per questo che ti occupi di tuo fratello.
— Tiago. Diciannove anni. È entrato a Ingegneria, alla Poli-USP. — E lì, nonostante tutto, le si accese l’orgoglio. — È più bravo di me in tutto.
Bruno fece un mezzo sorriso.
— E tu fai doppi turni per tenere in piedi la casa.
Júlia annuì.
— I debiti di mio padre hanno divorato l’assicurazione in pochi mesi.
Parlarono a lungo. A tratti profondi, a tratti leggeri. Bruno non la trattava come una comparsa capitata per sbaglio nel suo mondo: le faceva domande sul quartiere, sul mercato, su cosa mangiava davvero la gente quando non c’è tempo di “esperienze”.
E poi la stanchezza la travolse.
— Dormi — le disse, porgendole una coperta morbida, cashmere o qualcosa del genere, che sembrava una carezza.
Júlia provò a scherzare, ma la voce le era già lontana.
— Di solito non mi addormento sui jet privati di uomini che non conosco.
— Spero proprio di no — rispose Bruno, e nel tono c’era un sorriso vero. — Sarebbe una pessima abitudine.
Júlia sprofondò in un sonno pesante e senza sogni, il primo così da mesi. Quando si svegliò, il cielo fuori era diverso: un blu pulito, freddo, “europeo”. E la parola Parigi non era più assurda: era lì, davanti.
Il profumo del caffè fresco la riportò completamente in sé. Bruno stava leggendo su un tablet.
— Buongiorno — disse lui. — Venti minuti e siamo a terra.
Júlia si passò le mani sul viso, sperando di non sembrare un cuscino stropicciato con le gambe.
— Non dormivo così da… non lo so nemmeno.
— Era necessario.
Poi guardò fuori.
E la vide.
Parigi sotto di loro: la geometria dei tetti, la foschia del mattino, e in lontananza la Torre Eiffel che tagliava il cielo come un ago.
Júlia trattenne il respiro.
— È… irreale.
— Lo è — disse Bruno. Ma i suoi occhi erano su di lei, non sulla città.
Quando l’aereo iniziò la discesa, Bruno appoggiò il tablet e sembrò esitare, cosa che non le era ancora capitata di vedere.
— Ascolta, Júlia. Ti ho promesso che ti rimando subito. E lo farò, se me lo chiedi. Però… tu hai tempo fino a lunedì sera, giusto?
Júlia annuì, allerta.
— Potresti restare un giorno e mezzo. Solo oggi e domani. Come scusa. Ti mostro Parigi… davvero. Non la cartolina. Domenica sera ti metto su un volo per San Paolo. Arrivi lunedì mattina.
La parte razionale di Júlia urlava “NO” con tutte le sue forze: sconosciuto, ricco, paese straniero, rischio, rischio, rischio. Ma sotto quel coro ce n’era un altro, più piccolo e più disperato, che sussurrava: “E se fosse l’unica volta che respiri?”
— Devo chiamare Tiago — disse.
Il fratello rispose subito.
— Júlia! Rafaela mi sta tempestando di chiamate. Dove sei?
— Ti sembrerà assurdo…
Glielo raccontò in fretta, in mezzo a una risata isterica che le usciva a singhiozzi.
Dall’altra parte calò il silenzio.
— Sei… a Parigi? — fece Tiago, e sembrava che stesse cercando di non ridere e non svenire insieme. — Con Bruno Montovani?
— È solo un imprenditore—
— Júlia, ho cercato il nome mentre parlavi. “Solo” un imprenditore? È su Forbes Brasil. La sua azienda vale miliardi. È quello della crittografia bancaria, quello della Banca Centrale!
Lo stomaco di Júlia sprofondò.
Guardò Bruno, che fingeva di concentrarsi sulle e-mail come se non stesse ascoltando, con l’eleganza di chi sa stare in scena.
— Tiago, devo chiudere. Te la cavi con zia Carla?
— Ho diciannove anni, non sei. Resta a Parigi, Ju. Te lo meriti. E mandami foto, o non ti perdono. Ah: portami un profumo per la fidanzata che ancora non ho.
Júlia chiuse la chiamata e si voltò verso Bruno.
— A quanto pare… sei un miliardario.
Bruno fece una smorfia.
— L’azienda “vale”. Io non tengo miliardi in tasca.
— Mi hai lasciata credere che fossi… normale.
— Se lo avessi detto subito, mi avresti parlato così? Mi avresti raccontato tua nonna, tuo fratello, i debiti?
Júlia rimase un attimo in silenzio.
— No.
— Ecco. — Bruno si alzò, come se volesse dare una forma concreta alla proposta. — Un giorno e mezzo. Accetti?
Júlia sentì il “sì” spuntarle in gola prima ancora di poterlo analizzare.
— Sì. Ma alle mie condizioni: io chiamo Tiago quando voglio e tu non decidi per me.
Bruno sorrise.
— Affare fatto.
Il resto fu una bolla.
L’hotel era un posto da film, ovviamente. Júlia avrebbe voluto protestare, ma era troppo stordita per farlo sul serio. E in qualche modo, quasi per magia, comparvero vestiti nella sua taglia: un trench che le stava come se l’avessero cucito su di lei, jeans perfetti, bluse che non avrebbero mai visto il reparto.
Davanti allo specchio, Júlia si guardò e si spaventò: non per ciò che vedeva, ma per ciò che riconosceva. Una donna giovane. Viva. Non solo “quella che regge tutto”.
Bruno non la portò subito nei luoghi da cartolina. La portò nel Marais, tra vie di ciottoli, librerie dove l’odore di carta vecchia ubriacava, caffè piccoli e pieni di conversazioni basse.
— Ho vissuto qui un anno, dopo la laurea — le raccontò. — Io e Daniel. Due ragazzi senza soldi, a sopravvivere con baguette e formaggio economico, convinti che avremmo cambiato il mondo.
— Qui avete pensato l’azienda?
— Qui abbiamo promesso che, se ce l’avessimo fatta, non saremmo diventati ridicoli. — Rise, ma senza allegria. — Spoiler: ci siamo riusciti a metà.
Júlia sorseggiò vino e lo osservò.
— Non sembri ridicolo.
— Non mi hai visto quando devo recitare “il CEO” — disse. E poi, più piano: — Dopo Daniel, mi sono riempito di lavoro. E di persone vuote. Per non sentire il silenzio.
Júlia non lo giudicò. Il silenzio era un animale che conosceva.
La sera, Montmartre. Un ristorante minuscolo. Una donna, Camille, abbracciò Bruno come si abbraccia qualcuno che è mancato troppo.
Tra coq au vin e risate improvvise, tra confessioni e pause lunghe, i loro mondi si avvicinarono fino a sfiorarsi.
Júlia parlò del terrore di non farcela: con Tiago, con l’università, con l’idea di fallire davanti a chi dipendeva da lei. Bruno parlò della solitudine “in alto”, di come il denaro possa diventare una stanza chiusa, dove nessuno entra davvero.
E poi, sotto i lampioni dal colore del miele, Bruno si fermò.
— Non voglio che domani finisca — disse, e la voce gli uscì più ruvida.
Júlia sentì il cuore impazzire.
— Io devo tornare. Il lavoro… la vita è là.
— Lo so. Ma… non deve per forza essere la fine. — Si avvicinò. Il profumo di lui le arrivò addosso: legno, agrumi, qualcosa di pulito. — Con te mi sento… reale.
Júlia provò a tirare su una barriera, ma la barriera era stanca quanto lei.
— Vivi in un universo che non mi appartiene. Io prendo la metro affollata. Tu prendi… questo.
Bruno alzò le spalle, quasi seccato dalle categorie.
— E allora? Io posso lavorare ovunque. Io posso venire in Brasile. Tu puoi venire qui, quando puoi. Si costruisce. Non si decide in un pomeriggio.
— La fai sembrare facile.
— Forse lo è — disse, e le prese il viso tra le mani come se temesse che potesse svanire. — Forse siamo noi a spaventare tutto.
Il bacio non fu perfetto. Fu vero. Aveva il sapore del vino e della fame di vita. Júlia vi si aggrappò come a un’ancora, concedendosi – per la prima volta dopo anni – il diritto di desiderare qualcosa per sé.
La domenica, fuori Parigi, nella casa di campagna di Bruno, la realtà provò a rientrare dalla finestra. Júlia, per istinto, controllò notizie e immagini: gala, titoli, cifre, foto di lui accanto a persone lucide e irraggiungibili. La sensazione di essere un’intrusa le diede un colpo al petto.
Lo trovò in biblioteca.
— Io non appartengo a tutto questo — disse senza preamboli. — Io sono un’infermiera che si preoccupa del prezzo dei fagioli.
Bruno la guardò come se quella frase gli avesse fatto male.
— Questa è la tua circostanza, non il tuo valore.
— Sì che lo definisce. Definisce dove vivo, cosa posso permettermi, cosa rischio. Quando questo finirà… e finirà… io sarò quella a pezzi. Tu tornerai alle tue modelle e ai tuoi affari.
Bruno strinse la mascella.
— Mi stai dicendo che non hai creduto a una parola di quello che mi hai visto?
— Non è questione di credere. È sopravvivenza. Io non posso permettermi un cuore spezzato, non con Tiago e con il reparto. Ho persone che contano su di me.
Bruno attraversò la stanza, le prese le mani.
— Allora non ti chiedo di cambiare vita. Non ti chiedo di scegliere tra me e tuo fratello, tra me e il lavoro. Ti chiedo una possibilità. Piccola. Con i tuoi tempi.
Júlia cercò nei suoi occhi una crepa di falsità, un riflesso di gioco. Non trovò niente. Solo una speranza fragile che somigliava terribilmente alla sua.
— Va bene — sussurrò. — Ci proviamo. Però… se mi fai soffrire, Tiago studia ingegneria. Troverà il modo di sabotarti qualunque cosa.
Bruno scoppiò a ridere, una risata libera, quasi giovane.
— Messaggio ricevuto.
Il ritorno in Brasile fu dolceamaro. Bruno insistette per accompagnarla fino a casa.
Quando l’auto scura si fermò davanti al palazzo vecchio alla Mooca – facciata scolorita, cancello scrostato – Júlia sentì un nodo serrarle la gola. Era come se, tornando lì, temesse che tutto si rompesse.
— È qui — disse.
Bruno guardò l’edificio e poi guardò lei. Nessun giudizio. Solo un’affezione tranquilla.
— Consegna completata.
Alla finestra, Tiago spiava senza pudore.
— Ti chiamo domani — promise Bruno.
— Ti aspetto — rispose Júlia, e le venne naturale, come una verità semplice.
Si baciarono in macchina: un bacio da “a presto”, non da “addio”.
Sei mesi dopo, il caos dell’Ospedale das Clínicas era lo stesso di sempre: corridoi pieni, urgenze, passi veloci, voci che chiamavano. Però Júlia camminava diversa. Non meno stanca, forse, ma meno schiacciata.
Bruno mantenne la parola. Brasile ogni due settimane. Hotel nei Jardins, sì, ma poi serate sul suo divano piccolo, pizza del quartiere, partite in TV con Tiago che commentava come un telecronista.
Non era perfetto. I paparazzi si infilavano ovunque, i social sputavano cattiverie, e a volte la distanza bruciava. Ma il loro legame non aveva il sapore della favola: aveva il sapore del costruito.
Un pomeriggio, Rafaela comparve nel corridoio, trafelata.
— Júlia! Devi venire nell’atrio. Subito.
Júlia si irrigidì.
— È successo qualcosa? Arrivo di massa?
— No. Solo… fidati.
Scese di corsa.
E lo vide.
Bruno, in jeans e polo, in mezzo al flusso di pazienti e medici, con in mano non un mazzo di fiori, ma un plastico architettonico.
Júlia rimase a bocca aperta.
— Che ci fai qui?
Bruno posò il plastico sul banco informazioni, come se stesse depositando una bomba emotiva.
— Non riuscivo ad aspettare stasera.
— Cos’è?
Bruno respirò a fondo.
— “Fundação Daniel e Alzira.” — disse. — Daniel, il mio amico. Alzira… tua nonna.
Júlia si avvicinò e sfiorò le miniature, la struttura, gli spazi.
— Un centro per chi lavora nella sanità — spiegò Bruno, parlando veloce, preso dall’urgenza. — Borse di studio, supporto psicologico, una zona riposo decente, asilo per i figli del personale notturno. Finanziato dalla mia azienda.
Júlia sentì le lacrime riempirle gli occhi senza chiedere permesso.
— Bruno…
— Io posso mettere soldi e gestione — disse, prendendole la mano davanti a mezzo ospedale. — Ma l’anima… l’anima deve guidarla qualcuno che conosce davvero questi corridoi. Qualcuno che sa cosa serve a medici e infermieri, non quello che immagina un dirigente.
Le stringeva le dita come se fosse l’unico modo per restare ancorato.
— Ho bisogno di te, Júlia. Non solo “con me”. Con me in questo. Che dici?
Intorno a loro, Rafaela piangeva senza vergogna. Qualcuno applaudì, timido, poi altri, come se l’atrio avesse deciso di respirare insieme.
Júlia guardò quel luogo dove aveva combattuto tanto, guardò Bruno, e in un lampo rivide se stessa: stanca, confusa, trascinata verso un gate sbagliato.
— Dico che sei completamente matto — disse, e poi lo tirò a sé, baciandolo tra gli applausi. — E dico sì.
Perché, a volte, l’errore più assurdo è l’unico che ti rimette in vita. E quel Gate 47, che avrebbe dovuto rovinarle tutto, era stato il colpo più giusto della sua storia.