Un industriale dal portafoglio pesante ma dal cuore insonne trovò una bambina infreddolita vicino all’ingresso del suo palazzo, le trecce bagnate di pioggia e un peluche stretto al petto. «Ti sei persa?» chiese, piegandosi per guardarla negli occhi. Lei annuì appena. Non sapeva dire l’indirizzo, ricordava solo un nome: “Mamma, Sofia”. La portò a casa: una sciarpa avvolta attorno al collo minuscolo, cioccolata calda, il camino acceso. Mentre l’autista passava in rassegna i quartieri con il telefono in vivavoce, lui si ritrovò a compiere gesti che credeva di avere dimenticato: sbucciare una mela a spirale, asciugare lacrime con il dorso della mano, raccontare una storia a voce bassa perché il temporale, dietro i vetri, non sembrasse così feroce. Quando finalmente risalirono a un indirizzo, bussò a una porta scrostata di un vecchio condominio. La bambina gli strinse le dita. Dall’interno arrivò il fruscio affrettato di passi, poi il clic della serratura. La donna che comparve sul pianerottolo aveva i capelli raccolti in fretta e un’ombra di stanchezza negli occhi. Per un istante furono solo due sguardi che si riconoscevano prima ancora della mente.

Un milionario riportò a casa una bambina smarrita. Quando incontrò la madre, restò senza fiato: era la sua ex moglie.

Erano da poco scese le prime ombre della sera quando Arjun Malhotra, ancora con l’adrenalina di una riunione del consiglio addosso, fece fermare la sua berlina nera in una via tranquilla. Aveva bisogno di camminare per sciacquare dalla mente cifre, grafici e sguardi impazienti. Le luci del centro pulsavano lontane, come un’altra città.

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Poi sentì un pianto sottile.

Si voltò: davanti alla serranda di una libreria chiusa, una bambina di quattro anni stringeva al petto un orsetto spelacchiato. Guardava a destra e a sinistra, trattenendo il respiro per non scoppiare a piangere di nuovo.

Arjun si accovacciò al suo livello. «Ehi, piccola. Ti sei persa?»

Il labbro le tremò. «Ho… ho smarrito la mamma.»

«Come ti chiami?»

«Lila.»

«Io sono Arjun, piacere.» Si guardò intorno: nessun adulto, nessun familiare. «Hai un numero da chiamare?»

La bambina scosse la testa. «La mamma dice di non parlare con gli sconosciuti.»

Arjun accennò un sorriso lieve. «Hai una mamma saggia. Facciamo così: chiamiamo la polizia e aspettiamo insieme, va bene?»

Un’ora più tardi, dopo la segnalazione alle autorità e l’attesa in un vicino commissariato, nessuno era ancora arrivato a cercarla. Lila era stremata, gli occhi rossi, lo stomaco che brontolava. Arjun prese una decisione: «Vieni con me per stanotte. Domani ritroveremo la tua mamma.»

La portò in braccio fino all’auto; Lila si accasciò sulla sua spalla come un gattino infreddolito. Nel suo attico, la tata le preparò latte caldo e le mise addosso una copertina morbida. Lila si incantò davanti alle pareti di vetro e alle luci della città, ma si rasserenò solo quando Arjun sedette accanto a lei, raccontandole una storia a bassa voce fino a farla addormentare.

La mattina dopo, Arjun trasmise ai servizi sociali ogni dettaglio. E, mentre loro avviavano le ricerche, in lui si accese qualcosa che non provava da anni: un istinto di protezione assoluta, il rimpianto di una famiglia che non aveva mai costruito davvero.

A mezzogiorno arrivò la chiamata attesa: «Abbiamo individuato la madre. È in arrivo al suo edificio.»

Arjun prese Lila per mano e scese nella hall. «Tra poco arriva la mamma. Emozionata?»

La bambina annuì con un sorriso che gli trafisse il petto.

Le porte dell’ascensore si aprirono con un sibilo. Una donna entrò di corsa, spettinata, il respiro corto. I suoi occhi scorsero la hall finché non si posarono su Lila.

«Mamma!» gridò la piccola, scattando verso di lei.

La donna si inginocchiò, la strinse forte, poi alzò lo sguardo. In quell’istante Arjun sentì il mondo fermarsi.

«Anika?» Il suo nome gli uscì come un soffio.

Lei impallidì. «Arjun?»

Cinque anni dall’ultima volta. Cinque anni di parole non dette e tagli netti. E adesso, Lila fra loro.

Arjun deglutì. «È… tua figlia?»

«Sì», rispose Anika, la voce sottile.

«Quanti anni ha?»

«Quattro.»

Un colpo sordo nel petto. Arjun avanzò d’un passo, la voce che gli vibrava nella gola: «Dimmi la verità. Lila è mia figlia?»

Anika aprì la bocca, pronta a negare; poi Lila sussurrò: «Mamma, chi è lui?» Le spalle di Anika cedettero. «Lui è tuo papà.»

Papà. La parola si piantò in Arjun come una lama e, insieme, come una luce.

Si chinò. «Ciao, Lila. Sono il tuo papà.»

La bambina lo scrutò, in punta di pensiero. «La mamma diceva che il mio papà se n’era andato.»

Anika chiuse gli occhi. «Era… complicato.»

Arjun sentì la rabbia montare. «Complicato? Sei sparita. Ti ho cercata per mesi.»

Gli occhi di Anika si allargarono. «Mi hai… cercata?»

«Ovunque.» Il tono gli si addolcì e al tempo stesso si fece fermo. «E adesso scopro che aspettavi nostra figlia.»

Anika abbracciò Lila come per schermarla. «Non volevo che crescesse nel tuo mondo. Eri sempre a lavoro, non mi vedevi più. Mi sentivo invisibile. Ho pensato che non volessi davvero una famiglia.»

«Lavoravo per noi, per il futuro», ribatté piano Arjun. «Non l’ho capito in tempo. Ma non voglio perdere altro tempo adesso.»

Lila li guardò, attenta. «Mamma, sei arrabbiata?»

«No, tesoro. Solo sorpresa», disse Anika, asciugandosi le lacrime.

Arjun respirò profondamente. «Quello che è accaduto tra noi due lo affronteremo. Ma lei viene prima. Voglio esserci per Lila. Sempre.»

Più tardi, seduti nell’attico con la città a far da sfondo, Lila colorava silenziosa sul tappeto: tre figure mano nella mano, una bambina, un uomo, una donna. Anika seguì il contorno di quel disegno con lo sguardo lucido. «L’ho cresciuta da sola. Ho fatto il possibile. Non volevo i tuoi soldi, volevo una vita semplice per lei.»

«La semplicità non è l’opposto della sicurezza», rispose Arjun. «Ha bisogno di stabilità. E di entrambi i genitori.»

Nei giorni seguenti Arjun diventò una costante: accompagnava Lila al parco, imparava a memoria le sue canzoni preferite, si presentava orgoglioso alla recita della materna. Lila smise di chiedere “dov’è papà?” e cominciò a dire “papà viene?”. E ogni volta lui c’era.

Un pomeriggio, mentre mangiavano gelato su una panchina, Lila gli domandò: «Resterai sempre?»

Arjun sentì la gola stringersi. «Sì. Sempre.»

Quando tutto sembrava finalmente trovare una nuova forma, l’ombra del passato si allungò.

Una sera, la sua assistente irruppe nello studio con il volto teso. «Signore, c’è un problema. Qualcuno sta seguendo Lila.»

Arjun si irrigidì. «Seguendo?»

«Fotografie scattate davanti alla scuola, alla stessa ora, per più giorni.»

La storia della bambina smarrita non era più il preludio di una riconciliazione. Era l’avviso di un pericolo imminente.

Arjun capì che, se voleva proteggere sua figlia e quel fragile filo di fiducia che stava ricostruendo con Anika, avrebbe dovuto affrontare non solo i suoi errori, ma anche un nemico senza volto. Chiamò subito la sicurezza, allertò la scuola, predispose una nuova routine. Poi guardò il disegno di Lila sul frigorifero: le stesse tre figure, mano nella mano, con un sole enorme in alto.

«Non succederà nulla a lei», disse ad Anika con una calma che sapeva d’acciaio. «Qualunque cosa sia, la fermerò.»

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Anika lo fissò, esitante, e per la prima volta dopo anni gli credette. Forse perché non parlava da uomo d’affari abituato a vincere, ma da padre che non ha più paura di restare. E nell’abbraccio di Lila, che quella sera si addormentò tra loro due, capirono entrambi che il futuro non stava nel cancellare il passato, ma nel tenergli testa. Insieme.

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