«Mi manchi così tanto», sussurrò Maria, un brivido le corse lungo la schiena mentre la sua voce si perdeva nel silenzio della stanza.
Le sue mani si posarono su un vecchio album fotografico ingiallito dal tempo. In una foto sbiadita, Sasha sorrideva, con il piccolo Artyom in spalla.
Maria sfiorò quell’immagine con dolcezza. Nove anni erano trascorsi, ma il dolore era ancora vivido, tagliente come il primo giorno.
Fuori, la tempesta infuriava, scagliando fiocchi di neve contro i vetri. Maria si avvicinò al davanzale, dove una candela ardeva su un piccolo piattino. Era l’anniversario. In notti come questa, la sua assenza pesava più di ogni altra cosa.
«Ce la sto facendo, lo sai?» parlò rivolgendosi al vuoto. «Artyom è quasi alto quanto te. E Lyova… gli assomiglia così tanto.»
Dal camino la stufa scricchiolava, mentre Maria si avvolgeva in una vecchia coperta e si lasciava cadere sulla poltrona. La casa di legno gemeva sotto il vento impetuoso.
Non si accorse di essersi addormentata. Forse furono minuti, forse ore, finché tre colpi secchi alla porta non ruppero il silenzio.
Sobbalzò, il cuore le martellava nel petto. Chi poteva bussare in una notte simile? I vicini erano lontani chilometri.
I colpi tornarono, più insistenti.
Maria si alzò, camminando a tentoni nel corridoio buio. I suoi occhi incrociarono il coltello da cucina sul tavolo. Lo afferrò con decisione.
«Chi è?» chiese tremando.
Silenzio. Poi, di nuovo, tre colpi decisi.
Con mano ferma girò la chiave nella serratura. Un’ondata gelida e neve si infiltrarono all’interno, e sul pianerottolo comparve una figura.
«Marish, sono io. Sono tornato.»
Sasha. Il suo Sasha. Quello scomparso nove anni prima. Barba incolta, occhi stanchi, sorriso familiare.
Il coltello scivolò dalle dita di Maria. Si appoggiò allo stipite, tremando.
«Non può essere… sei… morto.»
«Sono qui», disse lui, avvicinandosi e abbracciandola.
Caldo. Reale. Profumo di terra e gelo. Maria si strinse al suo cappotto, affondando il volto nella sua spalla. Le lacrime scesero sulle guance. Le ginocchia cedettero e insieme caddero sul pavimento.
«Come?» riuscì solo a mormorare.
«So che non capisci», le accarezzò i capelli. «Ti spiegherò tutto, ma prima chiudiamo la porta, fa freddo.»
La aiutò ad alzarsi. Maria non lo lasciò andare, come temesse svanisse.
«E i ragazzi?» chiese lui guardandosi intorno.
«Dormono», rispose lei, fissandolo intensamente. «Sono cresciuti.»
«Lo so», sorrise con tristezza.
«Com’è possibile? Sei morto. Io ero lì.»
«Vieni», prese la sua mano. «Dobbiamo parlare. Non abbiamo molto tempo.»
Si spostarono nella stanza. Maria accese un’altra lampada a cherosene. Sasha si sedette al tavolo, osservando ogni dettaglio come se volesse fissarlo nella memoria.
«Hai tenuto bene la casa», disse con calore.
«Di cosa parli? Dove sei stato? Perché ora?»
Sasha sospirò, guardandola negli occhi.
«Ti racconterò tutto. Per favore, siediti.»
Maria gettò qualche pezzo di legno nella stufa. La fiamma si alzò, illuminando la stanza con un bagliore arancione e proiettando ombre danzanti.
Esitò, poi prese dall’armadio la sua vecchia tazza blu con il bordo scheggiato. Era lì da nove anni, come in attesa.
«Non pensavo l’avresti conservata», disse Sasha versandole il tè caldo.
Maria lo osservava, temendo di perdere il minimo dettaglio: la ruga tra le sopracciglia, la cicatrice sul mento, la barba incolta. Le sue dita sfiorarono il polso, la spalla, la guancia per assicurarsi che fosse reale.
«Sei reale», sussurrò con labbra aride. Poi, a bassa voce: «Dove sei stato tutto questo tempo?»
Sasha fissò a lungo il fuoco, poi iniziò:
«Dopo che me ne andai, non arrivai dove tutti pensano. Mi persi. Non raggiunsi la mia destinazione.»
Prese un sorso di tè.
«Era come un’oscurità densa, quasi tangibile. Vagavo senza sapere se fossi vivo o morto.»
Maria ascoltava trattenendo il respiro, stringendo la sua mano fino a farla intorpidire.
«Poi finii in un luogo chiamato Limbo. Una stazione senza fine, senza treni, senza corpi, solo sensazioni.»
Sasha posò la tazza e la guardò negli occhi.
«Non immagini quanti siano lì. Persi, dimenticati. Chi non riesce ad andare avanti.»
«Chi sono?» chiese Maria.
«Persone diverse: un vecchio che non perdonò suo fratello, una donna che abbandonò il figlio in ospedale, un ragazzo morto in una rissa… tutti bloccati dai loro rimpianti.»
Sasha sospirò, passandosi una mano tra i capelli.
«Tutti vogliono qualcosa: riparare, riconciliarsi. Ma nessuno sa come.»
«E tu?» Maria lo fissò. «Cosa volevi?»
«Vederti ancora», rispose semplice. «Negli anni ho fatto solo questo: ricordarti.»
«Il tuo sorriso ai miei goffi scherzi. L’odore dei capelli di Lyova sul collo. Le mani di Artyom quando prese il martello per la prima volta, precise come le mie.»
Il silenzio cadde denso. La tempesta infuriava fuori, ma per Maria il mondo si riduceva a quella stanza.
«Ho visto quell’albero cadere su di te», disse improvvisamente. «Mi chiamarono al lavoro. Corsi nel villaggio con il grembiule della scuola.»
Il dolore le strinse il volto.
«Non sai quanto ho sofferto. Perché tu? Perché proprio noi, quando era già così difficile?»
Andò al comò, tirò fuori una ricevuta spiegazzata.
«Guarda: banco dei pegni. Vendetti il ciondolo d’argento per comprare medicine. Artyom stava male, non avevamo soldi.»
Sasha si alzò e la abbracciò da dietro. Maria rabbrividì al suo calore.
«Marish, perdonami per tutto.»
«Per cosa?» si voltò. «Per esserti allontanato? Per averci lasciate?»
«Per averti lasciata sola», la strinse forte. «Per averti fatto indossare la forza quando dentro eri vuota.»
Maria pianse in silenzio, le lacrime scivolavano sulle guance.
«Ogni anniversario mettevo una torta sul davanzale», sussurrò. «Come mi insegnò mia nonna. Poi restavo sveglia ad aspettare… non so cosa.»
Rimasero in silenzio. Maria alzò gli occhi.
«Rimarrai con noi?»
Lui non rispose, la strinse più forte.
«Sash?»
«Non lo so», confessò. «Non conosco le regole. Sono solo… finito qui.»
Maria sentì il peso del crollo. Le gambe cedettero, lui la posò sulla poltrona in silenzio.
«Non andare finché non mi addormento», chiese chiudendo gli occhi.
«Non andrò», promise accarezzandole i capelli.
Nel sonno sentì il suo sussurro:
«Nemmeno io sapevo come vivere senza di te…»
Si svegliò all’alba, ancora avvolta nella coperta. Davanti a lei Sasha la guardava con tenerezza.
«Buongiorno», disse piano. «Hai dormito due ore.»
Maria realizzò che non era un sogno. Era davvero lì.
«I ragazzi si sveglieranno presto», disse frettolosa. «Non crederanno ai loro occhi. Soprattutto Artyom.»
Non chiamava “papà” da quasi un anno.
Sasha le prese la mano.
«Marish, devo dirti una cosa.»
Si gelò.
«Non posso restare.»
«Cosa?» Allontanò la mano. «Ma sei qui! Ti vedo, ti sento, ti tocco!»
Lo afferrò per le spalle, come a trattenerlo.
«È stato… un permesso», spiegò lentamente. «Solo una volta. Una notte. Non so come funzioni.»
Con l’alba sembrò svanire, tornare altrove.
«No, no!» urlò, poi si calmò pensando ai figli. «Solo non ora. Non ora che ti ho ritrovato!»
Sasha la strinse forte.
«Ascolta. Sono venuto per farti sapere che ci sono. Sempre.»
«Sei venuto quando…» iniziò Maria, con la voce spezzata.
«Quando hai pianto di notte, quando Lyova era malato, quando Artyom difendeva il tuo onore.»
Maria lo colpì sul petto.
«Se eri qui, perché non hai agito?»
«Non potevo», la voce si spezzò. «Ero solo un’ombra. Un testimone.»
Dal corridoio una voce assonnata:
«Mamma? Con chi parli?»
Lyova apparve sulla soglia, occhi ancora stanchi.
«Papà?» sussurrò confuso.
Maria si voltò verso il figlio, con le lacrime agli occhi.
«Sì, Lyovushka! Papà è tornato!»
Lyova guardò attraverso Sasha.
«Mamma, stai bene?» lo abbracciò.
Maria osservò: Sasha stava svanendo, diventando trasparente.
«Non può vederti», sussurrò.
«Non devono», rispose lui. «Era un dono per te.»
«Vai a svegliare Artyom», le disse.
Lyova corse via.
«Sasha, resta!» pregò Maria. «Solo un altro giorno!»
Lui scosse la testa.
«Devo andare.»
«Dove?» lo trattenne.
«Non lo so», sorrise tristemente. «Ma so di aver visto la tua forza.»
Arrivarono i passi di Artyom.
«Vi voglio bene», disse Sasha. «Ci sono. Sempre.»
La sua figura svanì in un alone di luce.
«Mamma!» esclamò Artyom entrando.
«Che succede?»
Lui guardava il vuoto. Maria li abbracciò entrambi.
«È così simile a te», bisbigliò.
«Papà?» chiese Lyova.
Maria li strinse a sé.
«Niente, tutto bene», rispose con sincerità. «Ho fatto un sogno. Un bel sogno. Papà è tornato.»
«Cosa ha detto?» domandò Lyova.
«Che è molto orgoglioso di voi», sorrise Maria asciugandosi le lacrime.
«Preparerai le frittelle? Oggi è l’anniversario.»
«Certo», accarezzò la sua testa. «Passeremo la giornata a raccontare storie su papà.»